di Mario Braconi

I cittadini dellla cosiddetta unica democrazia del Medio Oriente sembrano insensibili all’enormità dei danni che l’operazione “Cast Lead” sta procurando a migliaia di innocenti. Il professor Asher Arian, esperto di sondaggi israeliano, sostiene che le operazioni militari di Gaza sono un esempio perfetto di “guerra fortemente sostenuta dalla popolazione”: in effetti, il quotidiano Haaretz ha commissionato una ricerca su un campione di 452 israeliani, per capire che cosa pensassero delle operazioni nella Striscia di Gaza. Ebbene, oltre il 70% degli intervistati ad essa è favorevole (il 52% ai soli attacchi aerei, circa il 20% anche alle operazioni di terra; passaggio, questo, particolarmente delicato in un paese dove praticamente tutti i giovani prestano servizio nell’esercito, rendendo altamente probabile il fatto di avere un parente o un amico tra i soldati al fronte). Il 20% del campione auspica invece una tregua immediata, mentre il 9% non ha risposto o ha detto di non sapere cosa rispondere. Quadro sconfortante, confermato dalla scarsissima affluenza alla manifestazione organizzata dal movimento pacifista Peace Now lo scorso 10 gennaio: all’appuntamento davanti al Ministero della difesa a Tel Aviv si sono viste poche centinaia di dimostranti; sembra che molti dei pacifisti israeliani abbiano finito per abdicare ai propri principi a causa della montante preoccupazione per la sicurezza.

Questo clima di sfiducia è un humus fecondo ad una strategia politica ansiosa di spacciare la guerra come ineluttabile, argomento utile in un altro agone, quello politico, dove pure non manca il cinismo, in vista del fatto che in Israele si vota il 10 di febbraio. Come suggerisce alla BBC la psicologa Leah Cohen: “Hanno fatto la guerra prima delle elezioni perché vogliono guadagnare consensi”. Infatti, dopo l’uscita di scena di Olmert, azzoppato da una brutta storia di scandali, il timone del partito politico centrista, Kadima, è passato a Tzipi Livni, attuale Ministro degli Esteri dello Stato ebraico, nota per le sue dichiarazioni distensive e piene di un caldo senso di umanità quali “nessuno stop all'offensiva, non c'è emergenza umanitaria”, oppure “l'offensiva contro Hamas nella Striscia di Gaza è anche nell'interesse dei palestinesi.”

Ora, se si considera che la signora rappresenta il centro politico di Israele, mentre la sfrenata offensiva sulla Striscia porta la firma di un ministro di sinistra, il laburista Ehud Barak, anche ai più fantasiosi resta difficile immaginare che cosa - di peggio - possa arrivare a pensare e fare la destra di Israele. Una cosa è certa, comunque: sulla pelle dei bambini palestinesi si sta organizzando un bel gioco dal nome: “Qual è il partito con la maggior concentrazione di testosterone”?

A proposito di cinismo, è utile ricordare che Barak Obama assumerà ufficialmente l’incarico di Presidente degli Stati Uniti solo il 20 gennaio: non occorre essere dei geni politici per capire che l’attacco è stato sferrato qualche settimana prima del suo insediamento, in modo tale da non metterlo troppo in imbarazzo. Qualora egli ritenga che la pace in Medio Oriente sia la priorità immediata del suo mandato, cosa di cui è lecito dubitare, si troverà comunque di fronte a qualcosa di già avvenuto; non gli si potrà mai rimproverare di non aver impedito il massacro che si sta perpetrando in questi giorni.

Gideon Levy, è una delle poche voci pacifiste: dalle colonne di Haaretz, con stile abrasivo, tenta di risvegliare le coscienze dei suoi concittadini, anestetizzate dalla paura del terrorismo di Hamas quanto dalle abili strumentalizzazioni dei politici dello Stato ebraico. Una delle sue argomentazioni più forti è quella dell’inutilità della guerra, in particolare di questa: “Dobbiamo sempre ricordare”, scrive Levy, “che stiamo scatenando un conflitto contro una popolazione di figli di rifugiati che hanno patito terribili sofferenze: per due anni e mezzo essi sono rimasti imprigionati ed ostracizzati […]. La linea di pensiero secondo la quale grazie alla guerra, Israele si farà alleati nella Striscia, l’idea che violenze ed abusi sui popolazione renderanno queste persone più ragionevoli e che le operazioni militari riusciranno a rovesciare un regime ormai in trincea e a rimpiazzarlo con un altro a noi meno ostile è pura follia”. "Quello che fa pensare - prosegue Levy - è l’apparente incapacità di Israele di far tesoro degli insegnamenti della storia: difficilmente Hamas verrà ridimensionata dai bombardamenti, esattamente come la Seconda Guerra del Libano (2005) non è riuscita ad indebolire Hezbollah. L’epilogo sarà comunque un cessate il fuoco, che si poteva ottenere fin dall’inizio, risparmiandoci questa guerra superflua.”

Nel frattempo, però, 900 persone sono morte, di cui circa 260 bambini e 50 donne. E’ difficile comprendere come questo dato, così agghiacciante, non riesca a smuovere l’opinione pubblica israeliana. Come è possibile che le pur legittime istanze di sicurezza riescano a scalzare ogni altra forma di buon senso? Quante altre immagini di bambini ammazzati dovranno passare in televisione prima che si manifesti una qualche reazione? Se lo chiede anche Levy: “L’aggressione scatenata e la brutalità sono giustificate con il pretesto della ‘cautela’. Lo spaventoso bilancio di morte - circa 100 Palestinesi morti per ogni Israeliano ucciso - non riesce a stimolare nessuna domanda, quasi che si fosse deciso che il ‘loro’ sangue vale un centesimo del nostro, cosa che fa di noi dei razzisti”.

A dispetto della narcosi generale, qualcosa si sta muovendo a livello di organizzazioni non governative: “B'Tselem”, infatti, una delle più note ONG israeliane nel campo dei diritti umani, ha richiesto formalmente a Meni Mazuz, Attorney General del Ministero degli Esteri d’Israele, di indagare sulla legittimità del metodo seguito dall’esercito per selezionare i suoi obiettivi (sotto accusa ad esempio gli attacchi ai poliziotti). Sarit Michaeli di B'Tselem sostiene che, “secondo i criteri umanitari, molti degli obiettivi scelti non sarebbero legali”. Human Rights Watch, invece, ha chiesto alle Nazioni Unite l’istituzione di una Commissione d’indagine sui presunti crimini di guerra perpetrati dall’esercito israeliano; si tratta ovviamente di una misura più che altro simbolica, dato che, anche se l’organizzazione internazionale avrebbe teoricamente il potere di ordinare un’inchiesta e perfino di allestire un tribunale internazionale, simili misure verrebbero bloccate dal veto USA e, forse, anche da quello britannico.

Amnesty International, dal canto suo, attraverso una dei suoi investigatori sul campo in Israele, Donatella Rovera, ha sollevato la questione dell’uso di artiglieria pesante in zone densamente abitate, e la pratica dell’esercito israeliano di requisire abitazioni, confinare un’intera famiglia al piano terra, ed usare la costruzione come piattaforma per cecchini. Un caso di scuola nell’utilizzo di scudi umani da parte della cosiddetta unica democrazia del Medio Oriente.


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