di Mario Braconi

La Gran Bretagna é certamente paese cosmopolita, ma a tanta esterofilia non fa difetto - pare - altrettanto razzismo. Peraltro, proprio le istituzioni addette al governo dei flussi migratori, sembra siano tutt’altro che immuni dalla piaga. Il quotidiano The Independent sostiene infatti di aver portato alla luce, negli ultimi due anni, ben trecento casi di maltrattamento perpetrati da dipendenti dell’Ufficio Immigrazione britannico e dalle guardie giurate assegnate a tale dipartimento. Tra gli episodi denunciati, 38 sarebbero di stampo dichiaratamente razzista: gli addetti all’Immigrazione avrebbero apostrofato i disperati in fuga dalle persecuzioni e dalle torture praticate nei propri paesi di origine con l’epiteto di “scimmie” e li avrebbero “invitati” a “ritornarsene a casa propria”. Il razzismo che serpeggia tra le file delle forze di Polizia e dell’Immigrazione del Regno Unito continua a fare i titoli di cronaca: lo scorso 14 gennaio un dipendente di un centro di detenzione per richiedenti asilo è stato sospeso dal servizio dopo che la sua militanza politica in gruppi di estrema destra era divenuta notoria a seguito della pubblicazione sulla stampa di una lista di iscritti; una guardia giurata, il cui nome figurava nella stessa lista, è stata licenziata. In Gran Bretagna, infatti, chi decide di prestare servizio in Polizia o nella Polizia Penitenziaria, tra le altre cose, deve dichiarare formalmente di non essere iscritto al British National Party, al National Front, o al C18 (tutte forze politiche di matrice neofasciste o neonaziste e pertanto apertamente razziste). Tra parentesi, non sarebbe male che anche in Italia si pensasse a qualcosa di simile…

Secondo un portavoce di Medical Justice (ONG Britannica che si batte contro gli abusi sugli stranieri che chiedono asilo in Gran Bretagna) “il numero consistente dei reclami da parte delle persone detenute suggerisce che sia ben radicata presso le guardie carcerarie una certa cultura di cameratismo a sfondo razzista, che rischia di produrre frutti infetti se non s’interviene subito”.

Sono almeno quindici anni che il razzismo delle forze dell’ordine è un tema caldo in Gran Bretagna: la questione è esplosa con l’assassinio di Stephen Lawrence, un ragazzo di South End London, cui la vita fu rubata, il 22 aprile 1993, da due coltellate, menate da sciagurati dementi che avevano in odio il colore della sua pelle. L’atteggiamento razzista e la non causale incompetenza dimostrati dalla Metropolitan Police nella conduzione delle indagini impedirono di inchiodare i colpevoli dell’assassinio (che peraltro ancora oggi non hanno pagato). La sete di giustizia della famiglia del giovane assieme al diffuso sdegno popolare resero inevitabile un’inchiesta, che l’allora Ministro degli Interni Jack Straw affidò ad un gruppo di studio diretto da Sir William Macpherson, un giudice dell’Alta Corte in pensione. Le conclusioni di Macpherson furono una doccia fredda per i cittadini del Regno: nel rapporto che porta la sua firma, la polizia di Londra venne definita “istituzionalmente razzista”. Da allora molte delle settanta “raccomandazioni” di Macpherson sono state adottate da Scotland Yard, al punto che oggi tutte le istituzioni pubbliche sono obbligate per legge a promuovere l’uguaglianza e perseguire ogni forma di discriminazione.

Eppure, come ci ricorda il caso dei militanti neofascisti infiltrati nel Servizio Immigrazione, occorre tenere sempre alta la guardia: il leader del British National Party, Nick Griffin, ex Terza Posizione, ha lavorato intensamente sull’immagine del partito, tentando di ripulirla: grazie a Griffin, la militanza neofascista è diventata decisamente più trendy che in passato. Nel documentario di Jason Gwynne “L’Agente Segreto”, un collage di riprese clandestine sul partito neofascista inglese visto da dentro, si può sentire Griffin definire l’Islam “una religione cattiva e perversa”, chiosando subito dopo: “Puoi star sicuro che, se dicessi una cosa simile ‘fuori’, mi beccherei sette anni di prigione” (pena massima per istigazione all’odio razziale). Una curiosità: dopo la trasmissione del filmato, in cui, oltre a Griffin altri iscritti al partito si vantavano del proprio razzismo, Barclays Bank, che fino al giorno prima aveva regolarmente tenuto i conti del BNP (“pecunia non olet”), si è stracciata le vesti in pubblico e a mezzo stampa ha fatto sapere al tesoriere del partito nazionalista britannico che era il momento di cercarsi un’altra banca.

Insomma, teste rasate, croci uncinate e ammennicoli vari hanno fatto il loro tempo: il nuovo fascismo “made in UK”pesca consensi non solo dal suo bacino elettorale “classico” (classe operaia, razza bianca); trova isolati ma cospicui consensi anche “nelle ville di Chelsea, nelle case di Belgravia come negli appartamenti di Knightsbridge: decine di dirigenti d’azienda, imprenditori del settore informatico, banchieri, agenti immobiliari e perfino un manipolo di professori. Una è l’ex Miss Inghilterra, un altro è il capo di una società d’investimento della City, un altro ancora è un cameriere della Regina, residente a Buckingham Palace. Griffin dunque sta vincendo la sua scommessa, almeno a giudicare dalle oltre 220.000 preferenze ottenute dal suo partito nelle elezioni locali del maggio del 2006 (50 seggi, soffiati soprattutto ai neo-laburisti).

Nel dicembre del 2006 un giornalista del Guardian s’infiltrò nel partito e v’intraprese perfino una piccola carriera: in poco tempo divenne addirittura “coordinatore” per il quartiere di Central London. Scoprì così che gli iscritti, “grazie alla Race Relations Act 1976 e alla Public Order Act 1986 (e forse anche alla naturale riservatezza britannica) raramente esprimevano apertamente le loro idee razziste, anche in presenza di persone con le stesse idee. Eppure un po’ della paura e dell’odio restavano: solo che emergevano al di là dello schermo di un gesto, una parola in codice. I militanti del BNP stanno molto attenti a non farsi identificare come tali (temono infatti di perdere il lavoro se vengono scoperti), si incontrano in modo semiclandestino e si scambiano esclusivamente e-mail criptate.
Una fredda corrente razzista dunque attraversa lo spumeggiante oceano multiculturale britannico. L’anonimo giornalista del Guardian è riuscito a mettere le mani su una lista d’iscritti: tra i soci “insospettabili”, accanto ad ottici, naturopati e manager si trovava anche Simone Clarke, Prima Ballerina dell’English National Ballet, circostanza che, per il suo intrinseco ossimoro non cessa d’intrigare: non è forse intensamente poetica l’incoerente coesistenza della leggiadra bellezza della danza con la brutale ideologica razzista? Senza tener conto che Ms. Clarke, che si è dichiarata appassionata delle maniere forti in fatto d’immigrazione, quando la stampa ha divulgato il suo imbarazzante segreto aveva come partner artistico un ballerino non proprio anglosassone (un cino-cubano, per l’esattezza). Si balla sulle punte...

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