di Eugenio Roscini Vitali

Erano le 02:00 del 18 gennaio quando gli israeliani dichiaravano il cessate il fuoco unilaterale: il ministro della Difesa Ehud Barak metteva subito in chiaro che la decisione non precludeva una reazione militare a qualsiasi forma di attacco. Dopo pochi minuti, dalla Striscia di Gaza partivano due Quassam: obbiettivo i kibbutz adiacenti il confine orientale con Israele; nessuna vittima. A distanza di qualche minuto altri 15 razzi si abbattevano su Sderot, Ashkelon, Eshkol, e Kiryat Gat. Veniva attaccata la città di Ashdod, dove un missile feriva un civile e danneggiava una casa. L’esercito israeliano rispondeva con un intenso fuoco di artiglieria e con l’impiego degli F-16; alle prime luci dell’alba anche Harakat al-Muqawama al-Islamiyya (Hamas) annunciava la sospensione delle ostilità. Da Damasco arrivava la notizia che dall’incontro al quale avevano partecipato i rappresentanti dei maggiori gruppi armati palestinesi era scaturita una posizione unanime sullo stop ai combattimenti; anche la Jihad islamica e i volontari del Fronte popolare di liberazione confermavano la tregua. In un intervento alla tv di Stato siriana il numero due della dirigenza politica di Hamas, Abu Marzuk, dichiarava: “Il nemico non è riuscito a imporre le sue condizioni; la resistenza palestinese annuncia un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e chiede che entro una settimana il nemico si ritiri ed apra tutti i punti di passaggio per lasciare entrare gli aiuti umanitari e i beni di prima necessità”.

L’ordine del capo di Stato maggiore israeliano, Gabi Ashkenazi arriva dopo 22 giorni di combattimento: sospendere i bombardamenti, ritirare il Tsahal oltre il muro ed uscire dalla Striscia in attesa di nuovi ordini. Il ritiro della smobilitazione è sostenuto, poche ore perchè l’ultimo carro armato attraversi il confine ed abbandoni il territorio palestinese prima ancora che Barack H. Obama prenda il posto di George W. Bush. Un modo per indossare l’abito nuovo prima della cerimonia o cercare un escamotage per uscire da una situazione che iniziava a prendere i connotati della trappola?

In effetti, l’impegno e l’accuratezza con la quale i vertici militari e i servizi segreti israeliani avevano preparato l’operazione “Piombo fuso” lasciavano supporre tutt’altro finale: il 27 dicembre gli F-16 avevano impiegato quattro minuti per distruggere sei moschee, ritenute i principali arsenali dei gruppi armati palestinesi, e l’80 percento delle rampe di lancio dei missili Qassam. Al contrario, ci siamo trovati di fronte ad un’altra mezza sconfitta, una ripetizione di quanto accaduto nel 2006 in Libano.

Hamas ha accolto la tregua dichiarata da Gerusalemme come una vittoria e all’improvviso ha capito che neanche Israele può portare oltrepassare certi limiti: “l'operazione israeliana nella Striscia di Gaza è stata un fallimento e noi abbiamo fermato l'aggressione armata del nemico, contro lo Stato ebraico abbiamo riportato una grande vittoria” ha detto il leader di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh; “il nemico non è riuscito a raggiungere gli obiettivi che si era prefissato”. In effetti, se si esclude la prima fase dell’attacco, le bombe e i cingoli delle Forze di Difesa Israeliana (IDF) hanno ottenuto ben poco, o perlomeno non hanno raggiunto nessuno degli obbiettivi che il triunvirato Olmert, Livni, Barak avevano dichiarato: eliminare Hamas, mettere fine al lancio dei razzi e interrompere il rifornimento di armi.

Secondo le stime diramate dal movimento islamico le vittime del conflitto sono 1323; circa 400 gli uomini appartenenti alle milizie volontarie; 230 quelli delle forze di sicurezza, incluso il capo della polizia di Gaza, Tawfiq Jaber. Tra i gruppi combattenti più radicali le vittime sarebbero ancora meno: 34 quelle denunciati dalle Brigate Al Quds. Per quanto riguarda i razzi, sarebbero più di 600 i Qassam e i Grad caduti su Israele, 15 anche dopo l’annuncio della tregua, a conferma che le rampe sono ancora funzionanti. Le sole Brigate Al Quds avrebbero lanciato 262 razzi, 158 su Ashkelon, Sderot, Kfar Azza, Nahal Oz, Nir Oz, Be’eri, Nirim, Miftahim e Eshkol; sparati 77 colpi di mortaio e 27 colpi di RPG-7 (arma portatile anticarro); detonate 32 cariche esplosive. Secondo i capi militari del gruppo, gli attacchi avrebbero causato il ferimento di 16 coloni e 56 soldati, mentre sarebbero 18 i militari israeliani uccisi (10 secondo Gerusalemme).

Il contrabbando è poi un capitolo a parte. Nonostante la rete di tunnel che collega il Sinai a Rafah sia stata fortemente danneggiata e il tratto di mare di fronte a Gaza sia stato interdetto, ad appena tre giorni dalla tregua il contrabbando verso i territori é già ripreso. Un video dell'Associated Press mostra degli operai impegnati a ripulire i tunnel rimasti bloccati dopo i bombardamenti e degli uomini che contrabbandano carburante. I servizi segreti israeliani sono certi che oltre ai generi di prima necessità Hamas si stia preparando a riprendere il traffico di armi e che dietro questa operazione ci sia l’Iran, ipotesi tra l’altro già ventilata durante gli ultimi giorni del conflitto.

E’ per questo che Israele e Stati Uniti stanno pattugliando da tempo il Mar Rosso e l’ingresso al Golfo di Aden e da qualche giorno, in collaborazione con la Marina Militare egiziana, danno la caccia ad un mercantile che, partito il 17 gennaio scorso dal porto iraniano di Bandar Abbas, starebbe trasportando 60 tonnellate di armi, inclusi 50 Fajr-5, razzi d'artiglieria con calibro da 333 mm e testata da 90 kg che hanno un range che si aggira intorno ai 75 chilometri.

A condurre la caccia sarebbe la USS San Antonio, la nave da guerra americana che guida la task force CTF 151, la missione internazionale che da tempo da la caccia ai pirati somali che operano nella vasta aerea geografica compresa tra il Golfo di Aden, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. La notizia, diffusa dal sito israeliano Debka, lascia però perplessi quando si parla di un cargo targato Iran-Hedayat che una volta entrato in acque internazionali avrebbe cambiato il nome in Famagustus e sarebbe ora registrato come battello battente bandiera panamense. Raggiunta la costa sud-orientale del Sinai la nave consegnerebbe il carico nelle mani di un gruppo di trafficanti beduini che da El Arish raggiungerebbero poi la costa mediterranea della penisola e quindi la Striscia di Gaza. Ipotesi azzardata o rischio calcolato?

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