di Rosa Ana De Santis


Ratzinger parte per l’Africa il prossimo 17 marzo. Andrà in Angola e in Camerun per abbracciare l’immenso continente nero. Una visita di alto valore simbolico con in testa l’unico fine di annunciare l’avvento custodito nel messaggio evangelico. La novella riconciliatrice del Cristo in un paese tormentato da divisioni e conflitti permanenti. La Chiesa non lavora a obiettivi politici, economici o sociali. A cuore ha soltanto il messaggio di fede e di conversione. Questo dichiara il papa alla prima pagina del suo diario di bordo. Sua Santità non ha visto o non ricorda le memorie dell’Africa e le sue cronache cariche di ingiustizia. Non ha ascoltato una parola dei suoi più fidi colleghi e non ricorda nemmeno più i suoi comizi domenicali. Così pare.
Quella linea tanto rivendicata in patria che vede il Vaticano farsi profeta di campagne parlamentari, magari solo politiche, scuotere i seggi dei nostri deputati, esplicitare dai propri quotidiani indicazioni di voto per i cittadini e dettare regole per i legislatori e per i medici, per i farmacisti e per i notai, a quanto pare non vale più per gli esteri. Non sfugge, nemmeno a voler essere distratti, questa doppia velocità, questo metodo mutevole che vede la politica ora rivendicata come propria missione sociale, ora negata quando si mette piede, casualità, in uno dei punti del pianeta che più di altri patisce la pena di un potere carnefice. Lì dove vorremmo vedere Sua Santità fare il più feroce degli Angelus, gridare le responsabilità, comminare pene e tessere il mosaico dell’inferno, proprio lì lui si metterà soltanto a pregare nel suo piccolo Gestemani. Non come Cristo nel tempio occupato dai mercanti, per rimanere alle fonti. Chissà dove era- Sua Santità- in quella cacciata furiosa il confine tra la preghiera e la politica?

Quale mancanza di coerenza fa sì che un papa sia re nel meeting di Rimini di non molto tempo fa e diventi solo pastore quando atterra nel vecchissimo mondo nero, è difficile da stabilire.

L’Angola. Pochi giorni fa MISNA raccontava in poche righe di un ennesimo esodo di 20.000 persone per le alluvioni nel sud del Paese, del rischio colera aggravato dal contagio delle acque, della conseguente impennata dei prezzi dei beni alimentari che grava sulla popolazione. La storia contemporanea racconta di un passaggio affatto indolore dalla linea sovietica a quella statunitense. Poi la guerra civile, diversa e identica a tutte quelle che hanno fatto brandelli della terra e della gente d’Africa.

Il Camerun, una perla rara di stabilità nel quadro dell’Africa Centrale. Una terra stuprata anche questa dal colonialismo. Anche qui l’agricoltura di sussistenza lascia in povertà tanta popolazione.
E potremmo continuare a raccontare storie assai simili risalendo lungo i margini la scacchiera geometrica del deserto e le umide pupille dei laghi. Stati disegnati e divisi dal compasso occidentale. Paesi rapinati dalla politica del peccato. Ma questo pontificato non ha finora ufficialmente sprecato inchiostro sui temi della dottrina sociale che pure rappresenterebbero una sua missione fondamentale.

Ratzinger è un teologo e ha finora scritto di speranza e carità. Sarà poi il turno della fede, la terza virtù teologale? La giustizia è certamente tema ingombrante, legato a doppio filo con la politica. Il papa ad oggi ha respinto diverse bozze di encicliche sulla dottrina sociale della Chiesa che, nell’auspicio del cardinale Martino ed altri, sarebbero dovute andare ad ammodernare quanto espresso nella Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, ormai datata e non accettata da tutta la gerarchia ecclesiastica.

Saremmo curiosi di leggere le novità della dottrina sociale cattolica mentre un papa in Africa annuncia di non voler fare politica. Le missioni servono allora solo ad elargire battesimi di massa? Accadeva così- in effetti -non più tardi di dieci anni fa a pochi chilometri da noi, nella vicina Albania. Il recupero dei bambini soldato, affidato alle numerose comunità di missionari, non è forse un’azione politica dalle enormi conseguenze? E le comunità di base, impraticabili in Africa, che hanno dato risultati importanti invece nel Sudamerica, non rappresentano forse un autentico esperimento politico ispirato alle prime comunità cristiane?

E’ impossibile pensare la Chiesa, o per meglio dire il cristianesimo, senza la politica. E’ d’obbligo invece, quello che le forze laiche faticano a fare in Italia, impedirne l’ingresso nelle istituzioni e nelle leggi dello Stato. Potere e politica, un’equazione malposta o riduttiva che per giunta rischia di slittare a solo vantaggio del dominio dello Stato Pontificio.

La verità è che i cattolici fanno politica. Non hanno mai smesso. Mentre la Chiesa che li rappresenta la fa part time, solo su alcuni temi. Su altri, stando all’ultimo Angelus, si affida alla provvidenza e alle sacre scritture, collezionando corsi intensivi alla fede, forse terrorizzata al pensiero di perdere futuri adepti nel vecchissimo continente dove lo zelo calvinista dei fratelli protestanti costruisce a ritmi da record i templi del Signore.

Ironia della sorte l’annuncio della sola missione di fede cade in una terra sbagliata. Sua Santità sa bene che l’Africa è stato il paradiso in terra scelto da Daniel Comboni. Vescovo della metà del 1800, nato a Limone sul Garda, innamorato di questa terra e ossessionato dalle sue ferite. I missionari comboniani hanno abiti che non trovano quasi mai il tempo di allestirsi nelle forme talari, le attività di lavoro sono continue, interrotte solo dalla tregua delle celebrazioni, impegnate sui fronti più accesi. Ambulatori dove si cerca di assistere i malati di HIV, lavoro nelle scuole pubbliche che hanno rette da capogiro dove i più poveri che non riescono ad andare sono aiutati dalle missioni. Ospedali accanto alle piantagioni di the dove donne e bambini si squagliano al sole. Casermoni di latta dove si fabbrica la coca cola senza etichette di riconoscimento. Quindi gruppi organizzati in forme parasindacali. In questo scenario nessuno si ferma solo a pregare.

Perché mai è cosi facile sedurre i politici su tanti diktat morali che toccano la vita privata dei cittadini e non si riesce a farlo nelle sale delle decisioni che governano quelle scene violente di umanità che muore per fame e per miseria? Perché lì non vediamo e non sentiamo lo stesso agitato tormento dei porporati? Perché sull’ingiustizia sociale dovremmo accontentarci di un po’ di rosari e di qualche educata condanna confezionata a S. Pietro, a troppi chilometri di distanza dall’Africa? Perché c’è una politica corretta a distanza sull’ingiustizia e una infiltrante come un veleno, aggressiva e potente nell’etica delle scelte individuali?

Un privato confessionale e in cambio un ambito pubblico affidato a qualche latinorum di condanna che non procura pensieri a nessuno.

La rivoluzione francese ha lasciato orfano di storia il dogma della frattellanza. Lì c’è tutta una speranza politica da costruire o anche solo da non perdere di vista. La Chiesa, erede di una parabola di vita paradigmatica quale è stata quella di Gesù di Nazareth, sceglie di andare in Africa a raccontarla con tanta devozione in un vespro e imbarazzata a rassicurare tutti che non farà politica. Ma qualche prete, siamo sicuri, in qualche angolo di inferno continuerà a fare politica, vangelo alla mano, e a farlo in modo visibile per le strade di una delle tante Korogocho. Lì dove l’impero degli uomini uccide mentre quello di alcuni uomini di dio prega.

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