di Mario Braconi


Secondo Yazid Sabeg, uomo d’affari francese nato in Algeria chiamato da Sarkozy a dirigere la Commissione per la diversità e le pari opportunità, “al giorno d’oggi, [in Francia] le discriminazioni basate su pretesti etnici hanno raggiunto un livello intollerabile. Occorre a questo punto misurarle per poterle meglio combattere”. Sabeg, per domare il mostro del razzismo, potrebbe essere utile rimozione del veto che attualmente impedisce alle rilevazioni demografiche francesi di acquisire dati sulla fede religiosa e sull’origine etnica dei cittadini. Dal punto di vista scientifico, l’idea non è inaccettabile: in fondo si tratta di un principio illuministico, coerente con una visione del mondo in cui il progresso scientifico è la base su cui costruire il progresso sociale. In una intervista a Reuters, Francois Heran, direttore dell’Istituto Nazionale di Studi Demografici, un istituto pubblico, spiega con un paio di esempi perché i dati sul luogo di nascita non sono sufficienti ad intercettare il nucleo del problema “diversità e discriminazione”: “ben un milione di coloni francesi nati in Algeria si trasferirono in Francia quando il Paese divenne indipendente nel 1962. Essi hanno conseguito un livello di integrazione di molto superiore a quello degli Arabi algerini immigrati in Francia successivamente, spinti da motivazioni economiche, eppure le [nostre] statistiche non distinguono tra le due comunità. Ancora, i cittadini francesi nati nei Territori d’Oltremare, come l’isola caraibica di Guadalupa, sono in maggioranza neri e non vi è modo di riflettere questo dato nelle statistiche ufficiali.”

Yazid Sabeg, forse anche per dribblare il fuoco di fila dei sacerdoti del politicamente corretto, preferisce che si indirizzi la ricerca sul “sentimento di appartenenza ad una determinata comunità”, sfumando la rilevanza di dati come il luogo di nascita e il patronimico. Non sorprende più di tanto il fatto che il “nuovo corso” francese abbia scatenato in Francia le reazioni di attivisti anti-razzisti, professori universitari e politici, preoccupati, in buona fede, che esso possa costituire un tradimento ai principi del 1789, secondo cui tutti i cittadini sono uguali, senza distinzione di razza, ceto o religione. Paradigmatica delle riserve degli intellettuali la reazione di uno storico, Patrick Weil, che, interpellato da Reuters, si è così espresso: “Questo è un paese che sessanta anni or sono ha sperimentato gli effetti disastrosi del razzismo… In Francia migliaia di Ebrei si sono salvati solo perché non esistevano statistiche di questo tipo”.

Anche un sondaggio pubblicato da Le Parisien ha dimostrato che la maggioranza degli intervistati (il 55%) si è detto contrario all’inclusione di dati “etnici” nelle statistiche pubbliche; è comunque interessante notare, comunque, che il 37% del campione sondato ha ritenuto che il nuovo approccio possa invece aiutare a combattere il razzismo. Insomma, benché prevalga nettamente la contrarietà verso l’idea, un numero non irrilevante di persone mostra nei suoi confronti una certa apertura.

Heran spiega così la contrarietà della maggior parte dei Francesi alla analisi demografiche basate anche sull’appartenenza (o, ancora più importante, al sentimento di appartenenza ad) una certa comunità: “Le polemiche non fanno che dimostrare che noi stessi non viviamo in modo sereno la nostra identità. Sembra quasi che la questione dell’immigrazione e delle origini ci spaventi. [Invece] è proprio perché crediamo nell’uguaglianza che vogliamo analizzare la discriminazione”. Più ancora degli eterni principi della République, ai politici (ed in particolare a Sarkozy) bruciano ancora le ferite della rivolta delle banlieues del 2005.

Molto scettico sull’argomento anche Malek Boutih, ex responsabile della ONG S.O.S Racisme, oggi membro di spicco dell’opposizione socialista. “Sarebbe bello se la Francia evolvesse attraverso misure con un qualche effetto pratico, anziché vedere i suoi politici mettere in discussione il principio stesso di uguaglianza”. Concetto elaborato con maggior precisione in un’intervista rilasciata la settimana scorsa al quotidiano Libération, nella quale si apprende, ed è una sorpresa, che il politico è del tutto contrario ad ogni forma di “affermative action” sul tipo di quella praticata negli Stati Uniti: “Accettare una forma di discriminazione positiva significa accettare l’idea che la società sia basata sulla disuguaglianza.” Secondo Boutih, per il governo è inevitabile la “marcatura” etnica [mentre è chiaro che essa è nulla più che] una falsa buona soluzione. “Se si promuovono delle élite mediante la discriminazione positiva – perché è di questo che si tratta – non si penserà mai che le persone occupino dei posti nel mondo del lavoro solo per le loro capacità. Questo può essere pericoloso”.

Per quanto riguarda il tema, caldo, delle banlieue, secondo Boutih esso non è “una questione di statistica etnica, ma di ordine pubblico. Eppure, non vedere questa realtà permette ai governi di autoassolversi per il proprio operato” – se la violenza è funzione dell’appartenenza ad un dato gruppo etnico, infatti, che cosa può fare il governo per prevenirla? La soluzione delle statistiche etniche è un placebo, una soluzione rapida, raffazzonata dai politici solo per dimostrare all’opinione pubblica che si sta facendo qualche cosa per gestire il problema del razzismo. Che ha l’ulteriore difetto di maneggiare una materia delicata in un modo apparentemente inconsapevole dell’importanza dei principi in gioco. Queste proposte, chiosa Boutih, dimostrano la loro natura conservatrice: “si tratta di una tipo di politica che ha rinunciato ad ogni tentativo di trasformazione sociale della società”.

Se è comprensibile la diffidenza degli intellettuali, che ovviamente temono un utilizzo strumentale di queste informazioni da parte del governo, resta forte l’impressione che il tema dovrebbe essere affrontato, per quanto possibile, con un atteggiamento più freddo e scientifico, scevro da valutazioni basate sulla contingenza politica.


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