di Eugenio Roscini Vitali

Non era difficile prevedere che dalla nascita di questo nuovo governo la svolta a destra sarebbe stata assoluta, come assoluto sarebbe stato il silenzio di Benyamin Netanyahu sul processo di pace israelo-palestinese e sulla teoria del doppio Stato. Un silenzio al quale ha invece dato voce il nuovo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che non ha esitato a riaffermare quanto già sostenuto in campagna elettorale, cioè che Israele non è assolutamente legato alle intese sottoscritte da Ehud Olmenrt ad Annapolis e che nel vicino Medio Oriente non c’è spazio per uno Stato palestinese: “Anche se dovessimo ripetere la parola pace venti volte al giorno non avremo la pace, più faremo rinunce e più la situazione peggiorerà”. Una destra sorda quindi, sia all’appello del presidente Shimon Peres, che ha chiesto a Netanyahu i massimi sforzi per continuare il progetto di stabilizzazione sostenuto da Usa ed Europa, sia alle proteste dell’Autorità palestinese che, per bocca di Mahmoud Abbas, ha denunciato le affermazioni di Lieberman come una sfida agli Stati Uniti: “La comunità internazionale dovrebbe rispondere a queste provocazioni che minacciano la sicurezza e la stabilità della regione”. Netanyahu, che si è insediato ottenendo la fiducia del parlamento con 69 deputati a favore e 45 contrari, non ha comunque finito di allargare la sua coalizione. Per consolidare la maggioranza e contenere le quattro defezioni derivanti dalla spaccatura avvenuta all’interne del Partito laburista, che partecipa a questa insolita alleanza, il neo insediato primo ministro ha aperto le porte all'Unione della Torah, partito ortodosso che con i suoi cinque deputati aveva già contribuito al voto di fiducia del nuovo gabinetto.

In questo modo Netanyahu, che ha raggiunto l’intesa concedendo alla formazione askhenazita due posti di vice ministro e la presidenza della commissione finanze della Knesset, ha però spostato l’asse della maggioranza ancora più a destra di quanto lo fosse. Una decisione che potrebbe incidere sulle scelte dei laburisti che ora si ritrovano in una coalizione che oltre al Likud e alla formazione ultranazionalista dell’Yisrael Beitenu, comprende il partito ultraortodosso sefardita Shas, i sionisti del Focolare ebraico e l’Unione della Torah.

Per ora, senza rompere platealmente con il gruppo, i quattro dissidenti del Partito laburista si sono limitati ad uscire dall’aula, ma il fatto di dover appoggiare scelte estreme, come quelle espresse da Lieberman sul piano di pace internazionale tracciato dal Quartetto e rilanciato ad Annapolis, potrebbe però portare la formazione guidata da Ehud Barak ad ulteriori forme di protesta e ad una reale scissione. Ma i laburisti disobbedienti non sono gli unici a nutrire forti dubbi sul futuro politico di Israele. Da un sondaggio fatto dal quotidiano Haaretz, il 54% degli israeliani non è assolutamente convinto sulle reali possibilità di successo dell’attuale maggioranza; al contrario sono in molti a pensare che l’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu sia destinato a non durare molto, viste le identità ideologiche troppo diverse e la presenza di troppi ministri, molti dei quali senza portafoglio, che gran parte degli intervistati non reputa all’altezza di affrontare le difficili sfide a cui è chiamato il paese. Sul piano socio-economico i dubbi deriverebbero soprattutto dal fatto che il premier avrebbe riservato il dicastero dell’Economia a Yuval Steinitz, un ministro senza esperienza che non sarebbe in grado di dare risposte convincenti ai problemi del paese.

Ancora più duro il giudizio su Lieberman che raccoglie solo il 25% dei consensi e risulta essere considerato non all’altezza di guidare il ministero degli Esteri. Colmo dell’ironia, nonostante il difficile momento politico attraversato dal Partito laburista, Barak rimane il membro del governo più amato e, per la quasi totalità del campione preso in esame, il ministro della Difesa ideale. Al severo verdetto delle statiche, cosa alla quale Netanyahu è tra l’altro estremamente sensibile, si aggiungono poi i problemi dalla piazza, dove le frange estremiste, approfittando dell’ascesa politica dei partiti dell’ultradestra, stanno lanciando una forte campagna anti-araba, azione che potrebbe innescare la reazione dei palestinesi e dar vita ad una nuova escalation di violenza. Abbas, che considera Lieberman un concreto ostacolo alla pace, ritiene che per evitare che le cose peggiorino, ed al tempo stesso salvare il processo di pace, gli Stati Uniti devono assolutamente intervenire e prendere una posizione contro le idee espresse dal ministro degli Esteri israeliano sullo Stato palestinese.

A rincarare la dose arrivano poi le dichiarazioni dei leader di Hamas, che definiscono il governo Netanyahu espressione della forte componente razzista che anima la società israeliana; i vertici di Fatah iniziano invece a considerare un serio pericolo la nascita di una Stato arabo ed incominciano a vedere nell’isolamento del movimento islamico voluto da Mahmoud Abbas un grosso errore. Ma Lieberman non gela solo i palestinesi: durante un’intervista rilasciata al quotidiano Haaretz, oltre a riaffermare che prima di parlare di pace è necessario che l’Autorità palestinese prenda il controllo della Striscia di Gaza e disarmi Hamas, il neo ministro degli Esteri ha detto di essere nettamente contrario al ritiro di Israele dalle alture siriane del Golan occupate nel 1967 ed ha chiarito che la politica delle concessioni fino ad ora intrapresa da Olmert - offrire territori in cambio di pace - rischia di causare solo nuove pressioni e portare a nuove guerre.

Una svolta politico-culturale quindi, una “nouvelle vague” tutta israeliana che da un taglia netto con il passato e che potrebbe ben presto dare vita alla sua prima creatura: un’operazione preventiva contro Teheran che Netanyahu non ha mai escluso e che Lieberman probabilmente auspica. Secondo il commentatore militare di Haaretz, Aluf Ben, ci sarebbero buone probabilità che il neo premier decida di attaccare gli impianti nucleari iraniani, un’ipotesi confermata da personalità politiche vicine al governo e da fonti di stampa internazionale che parlano di governi europei che avrebbero già cominciato ad attuare esercitazioni di sgombero dei loro cittadini dall’Iran.

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