di Rosa Ana De Santis

Catherine Ajok venne rapita dall’Esercito di Resistenza del Signore (LRA) la notte del 10 Ottobre 1996, quando era poco più di una bambina. Frequentava allora la scuola delle missionarie comboniane St. Mary, ad Aboke, nella diocesi di Lira. Catherine è tornata, con un figlio di soli 21 mesi avuto dal ribelle sanguinario Kony. Approfittando di un’imboscata che ha distratto l’esercito dei ribelli, questa giovane, che oggi ha 25 o 26 anni, è riuscita a fuggire. E’ comparsa qualche settimana fa dalle foreste del Congo. In quel ricamo di paradiso terrestre che segna a ovest uno dei confini della piccolissima Uganda. Una rete fittissima di vegetazione e suoni che incute ancora oggi un misto di timore e riverenza nelle persone del luogo, come di sacro rispetto. Così è tornata Catherine, come un fantasma dal passato. La sua sorte ha fatto il giro del mondo insieme a quella delle altre sue compagne di sventura. Centotrentanove bambine, rapite e messe a disposizione delle voglie e dei bisogni dell’esercito di Kony. Nemico storico del governo ugandese, pluricondannato dai tribunali internazionali, sconfitto soltanto sulla carta di inservibili trattati di pace o di tregue mai applicate nel paese. In particolare nel nord, nella regione intorno a Gulu, dove continua la barbarie dell’arruolamento dei piccoli e delle spose bambine, le uccisioni di massa, il controllo e il saccheggio dei villaggi. Un nemico che scandalosamente e con non troppo mistero ormai continua ad essere armato e continua ad accreditarsi come interlocutore nei tavoli della politica ufficiale. Tra le sue sessanta mogli, nel fanatismo della sua religione millenaristica, piena di veti e di regole tra Cristianesimo e Islam, stavano anche Catherine e Miriam. Nella corte di una poligamia forzata, iniziata in tenerissima età.

Fece di tutto, nei giorni del rapimento, la vice direttrice italiana della scuola, Suor Rachele Fassera, per la libertà delle bambine. Supplicò, s’inginocchio fino a raggiungerle e ad ottenerne il rilascio di 109. Per le altre 30 fu tutto vano. Vane furono anche le pressioni internazionali. Di loro si perse ogni traccia. Dal buio di quella che viene chiamata la “foresta impenetrabile” vennero mangiati i loro anni. Fu così che divennero mogli e madri per violenza, disperse come merce tra i soldati. Schiave. Un anno fa si era accesa qualche speranza durante le fasi finali della pace a Juba con il Sudan, ma non per Catherine. Diventata moglie di Kony per lei non poteva esserci alcuna possibilità. Un mese fa la salva una fuga quasi miracolosa. Un mese lunghissimo nella trappola di continui pericoli, per tornare a casa. In quella vecchia scuola dove tutto è iniziato, 12 anni e mezzo fa.

Sulla storia delle ragazze di Aboke e l’impegno tenace di Rachele Passera è nata la Concerned Parents Association, l'associazione che riunisce i genitori dei bambini ed adolescenti rapiti dal LRA. Delle bambine prigioniere, due sono state uccise, altre due sono state date in moglie al comandante Omona, morto successivamente di AIDS. Altre 8 sono state trattenute in Sudan e “fanno da mogli” a Kony, cui formalmente il Sudan dice di negare ogni protezione. Un inferno, quello del Nord Uganda, che ha descritto con grande fedeltà la giornalista belga Els De Temmerman. Un girone dantesco che sta aldilà delle missioni e delle scuole, fortini di speranza, dove i bambini che non muoiono per epidemia di malaria o per AIDS, muoiono ogni giorno brutalizzati da soldati o da mogli di soldato.

Nella cronaca di una militarizzazione permanente del paese che solo il presidente Musuveni riesce a non vedere e su cui fallisce ogni presunto tentativo di ristabilire il controllo del governo centrale. Responsabile ufficiale la guerra per la teocrazia di Kony, gli scontri tribali e i conflitti intestini nella regione poverissima della Karamoja. Responsabile profondo ogni assenza del concetto di comunità e di unione tra la gente, quello che dove non ha salvato la libertà ha comunque generato spinte di rivolta e ribellione in altri punti del pianeta dominati da tirannidi pericolose. L’Africa non è mai stata il Sudamerica.

In Africa è un’altra storia. Nell’Uganda, perla di acque a cavallo dell’Equatore, sembra non esserci luogo possibile di riscatto. Non nella terra, né nel pensiero. Qui non passa la teologia della liberazione. Né il progetto di una resistenza politica volta a smascherare la scenografia di una Repubblica che vede lo stesso presidente in carica dal 29 gennaio del 1986. Qui il tarlo della divisione s’infiltra e toglie ossigeno alla comunità. All’idea stessa che la nutre. Ogni tanto si accende un po’ di speranza grazie a qualche storia strappata all’inferno. La speranza in Africa vivacchia così. Non riesce a trovare la strada maestra di una liberazione. È una manciata di storie, è qualche viso, è una fuga in solitudine. Oggi si chiama Catherine, ed è tornata. Per il resto dell’inferno, c’è tempo.

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