di Mario Braconi

Il 26 aprile scorso in Islanda è cambiato il clima politico? Johanna Sigurdardottir, il politico più amato del Paese, la cui sobrietà e riservatezza le hanno guadagnato il soprannome di “Johanna la Santa”, ne sembra convinta, almeno a giudicare dai commenti rilasciati in occasione dell’affermazione elettorale dei due partiti di sinistra (Socialdemocratici al 30,5% e Verdi di Sinistra al 21,5%): “Si sente il bisogno di un cambio nei valori. Il popolo islandese sta pareggiando i conti con il passato, in particolare con il verbo neo-liberista che è stato al potere per troppi anni”. In effetti, il risultato dei due partiti rappresenta un salto quantico in una nazione in cui per diciotto anni si è invariabilmente votato a destra e nella quale il celebrato modello scandinavo è stato applicato quanto in Italia. E’ però difficile credere che lo scorso fine settimana in Islanda si sia verificata una palingenesi politica: è opportuno domandarsi come mai questo Paese riscopra i valori della solidarietà e della collaborazione solo dopo che i suoi cittadini sono stati selvaggiamente bastonati dal boomerang della crisi. Pare infatti che idee genericamente di sinistra non fossero particolarmente popolari in Islanda negli anni in cui il PIL cresceva con ritmi tali da far impallidire quelli degli USA, si importavano migliaia di schermi al plasma e di SUV, e nella capitale Reykjavík pare fosse divenuto uso comune decorare gli interni dei ristoranti di lusso con uva spina importata direttamente dal Sud Africa.

Se si guarda alle vicende recenti dell’Islanda con l’occhio disincantato dello scrittore o con quello clinico di uno psicologo sociale, è impossibile non concludere che vi sia qualche cosa di quasi epico nell’incredibile parabola di questo Paese, improvvisamente ritrovatosi in bancarotta. Proviamo ad immaginare: fino a poco fa, i cittadini islandesi godevano di un tenore di vita tra i più elevati al mondo (nel 2007 era loro il quinto posto tra i paesi con più alto reddito pro-capite), le sue banche erano sbarcate in Gran Bretagna, sostenendo i suoi imprenditori freschi di “business school” nella silenziosa conquista di catene di distribuzione e piccoli imperi della ristorazione, raccogliendo nel contempo i risparmi dei cittadini del Regno allettati dai generosi rendimenti offerti sulle giacenze.

Ma nell’ottobre del 2008 il giocattolo si rompe. Con i fallimenti delle principali tre banche del Paese e l’aspra polemica diplomatica innescatasi con la Gran Bretagna, si è iniziato a ragionare sulla sostenibilità di un sistema in cui le banche accumulano attività per un importo pari a dieci volte il prodotto interno lordo, e le famiglie si indebitano per oltre tre volte il loro reddito disponibile. I risultati di anni di capitalismo allegro sovralimentato da una finanza irresponsabile sono drammatici: le tre principali banche nazionali (Kaupthing, Landsbanki e Glitnir) fallite e nazionalizzate; disoccupazione quadruplicata (dal 2% all’8%); inflazione stimata tra il 15 e il 20%; circa 30.000 padroni di casa (su una popolazione complessiva di poco più di 300.000 abitanti) il cui mutuo vale più dell’immobile ipotecato, senza calcolare i debiti contratti per l’acquisto di autoveicoli e gli scoperti di conto corrente. Unica via di scampo per un paese che nel 2009 vedrà la sua economia contrarsi dell’11% è il sostegno del Fondo Monetario Internazionale, che ha messo sul piatto un pacchetto da oltre 11 miliardi di dollari (di cui 5,1 sotto forma di un finanziamento diretto e il resto come garanzia dei depositanti esteri).

A gennaio le proteste di piazza costringono alle dimissioni il governo conservatore in carica, quello del partito dell’Indipendenza, spianando la strada ad un esecutivo tecnico retto da un primo ministro ad interim, Jòhanna Sigurdardottir, 66 anni, ex assistente di volo, deputato dal 1978. Un governo che, al di là del carisma e delle qualità della persona che lo dirige, andrebbe ricordato anche solo perché presieduto da una omosessuale dichiarata (Johanna è infatti sposata con una celebre intellettuale - in Islanda è legale!) e composto per la metà esatta da donne. Due rimarchevoli eccezioni nel panorama grigio della “liberale” Europa.

Sigurdardottir è uscita a testa alta dal diluvio di accuse di incompetenza e corruzione, piovute con ottime ragioni sui suoi colleghi in seguito al disastro finanziario. Decisa a segnare una discontinuità con chi l’ha preceduta, il 10 marzo ha nominato consulente speciale del suo governo Eva Joly, figura leggendaria dell’anticorruzione, talmente carismatica da aver ispirato due film sulla sua vita, più o meno romanzati (ricordiamo qui “La Commedia del Potere”, diretto nel 2006 da Claude Chabrol e interpretato dalla legnosa Isabelle Huppert). Nata nel 1943 in Norvegia e trasferitasi a Parigi a 18 come ragazza alla pari, la Joly è diventata un noto giudice nel suo Paese di adozione, raggiungendo un’incredibile notorietà mediatica - anche grazie alle sua intransigenza e al suo coraggio nel perseguire i crimini dei colletti bianchi - continuò regolarmente il suo lavoro, a dispetto delle minacce di morte ricevute nel corso delle sue inchieste.

In qualità di Premier temporaneo di un governo di unità nazionale, la Sigurdardottir si è distinta per il suo attivismo: ha rimosso dal suo incarico il banchiere centrale Davíð Oddsson, ex premier negli anni Novanta e principale maître à penser della rivoluzione economica che in un decennio ha trasfigurato l’Islanda, sostituendolo senza tanti complimenti con l’economista (ed ex Segretario di Stato) norvegese Svein Harald Øygard. In effetti, pochi politici potrebbero rappresentare meglio di Oddsson le politiche irresponsabili che, dopo una breve stagione di ricchezza e di benessere senza precedenti, hanno condotto il Paese al collasso: forte della convinzione che l’impaccio più grave allo sviluppo dell’Islanda fosse “la morsa d’acciaio che lo stato islandese stringeva sulle attività imprenditoriali grazie alla proprietà pubblica delle banche commerciali”, si diede da fare per privatizzarle e, ironicamente, oggi sono tutte di nuovo possedute dallo Stato, diventato nel frattempo insolvente.

Una cosa è certa: nei prossimi quattro anni del suo mandato Johanna Sigurdardottir affronterà sfide di non comune complessità. Innanzitutto, gestire il risanamento finanziario calando la scure sul bilancio dello stato: a quanto si apprende dalla stampa, nei prossimi tre anni l’Islanda dovrà ridurre di un terzo il suo budget pubblico (870 milioni di euro su un totale 2,6 miliardi) per compensare il deterioramento dei conti pubblici dovuto alla decrescita del PIL. Poi dovrà coprire il buco lasciato dal fallimento delle tre banche fallite e nazionalizzate (il salvataggio delle quali comporta un costo complessivo di circa 6,4 miliardi di euro) e negoziare un accordo equo con i creditori britannici delle banche; ripagare i debiti contratti con il Fondo Monetario Internazionale. Inoltre, dovrà riuscire a convincere i suoi alleati ambientalisti (i Verdi di Sinistra) che il risanamento dell’economia e delle finanze passa attraverso l’adesione all’Unione Europea. La stabilità dei cambi resta infatti per i socialdemocratici un ingrediente ineliminabile della loro ricetta per uscire dall’empasse finanziaria; anzi, il neo Primo Ministro vuole bruciare le tappe, se è vero che punta a siglare un accordo con Bruxelles nel giro di un anno e mezzo.

In un Paese dove l’elettorato è diviso più o meno a metà tra filo-UE ed euroscettici, Sigurdardottir se la dovrà vedere con i suoi alleati ecologisti, preoccupati che l’ingresso nel “club” dei 27 apra la strada a quelle che vengono considerate indebite influenze esterne negli affari islandesi, segnatamente in tema di pesca. Chi ha votato per i Verdi prova disagio al pensiero di un burocrate di Bruxelles che impone per legge al pescatore islandese il numero dei merluzzi che può pescare in una giornata di lavoro, anche perché non si deve trascurare il peso della psicologia di un popolo fiero della sua indipendenza e capacità di sopravvivenza in uno degli ambienti naturali più ostili al mondo.

I Verdi vorrebbero che gli islandesi si pronunciassero prima in generale sull’adesione all’Unione e, in seguito, sui termini dell’accordo, mediante due referendum distinti (“Non mi risulta che questo approccio sia stato seguito in alcun altro paese” ha commentato la Sigurdardottir); i socialdemocratici, invece, spingono per un unico referendum, quali che siano i termini dell’accordo. Solo un miracolo, par di capire, può aiutare la combattiva Johanna: difficile da conseguire anche per una “santa”.


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