di Michele Paris

La liberazione dal carcere per detenuti politici di Evin, nei pressi di Teheran, della giornalista americana di origine iraniana Roxana Saberi, è stata accolta con grande sollievo dai vertici diplomatici di Washington, impegnati nel complicato tentativo di riavvicinamento alla Repubblica Islamica dopo tre decenni di gelo. Il caso della reporter freelance per la Radio Pubblica Americana (NPR) e la BBC ha destato l’indignazione generale dei giornalisti occidentali (soprattutto americani), i quali nelle scorse settimane avevano fatto a gara per chiedere la sua immediata scarcerazione e condannare senza mezzi termini la carenza della libertà di stampa in Iran, nonché la sistematica violazione del diritto ad un processo equo in questo paese. Se la libertà concessa alla giornalista iraniano-americana rappresenta un piccolo ma innegabile successo della strategia di Obama nei confronti dell’Iran e fa registrare in qualche modo uno storico passo avanti nei rapporti tra i due paesi, l’intera vicenda ha messo in luce tuttavia l’ipocrisia del giornalismo “mainstream” occidentale, ben attento - salvo qualche rara eccezione - a dimenticare il pessimo bilancio degli Stati Uniti per quanto riguarda l’arresto e la detenzione prolungata di giornalisti (soprattutto arabi) senza sufficienti prove di colpevolezza. Che la questione legata alla sorte di Roxana Saberi avesse potuto costituire un intralcio all’iniziativa diplomatica della nuova amministrazione americana, lo si era capito da subito. Più difficili da definire risultavano però gli effetti di una eventuale pesante condanna sugli equilibri interni dell’Iran in vista delle elezioni presidenziali del prossimo mese di giugno. In questo senso, il presidente Mahmoud Ahmadinejad ad aprile aveva preso un’insolita iniziativa. Rivolgendosi direttamente alla corte chiamata a valutare l’appello della giornalista, arrestata inizialmente per aver acquistato una bottiglia di vino e in seguito accusata di aver lavorato in Iran senza accredito stampa e poi ancora di spionaggio, Ahmadinejad aveva infatti chiesto una sentenza all’insegna della clemenza. Una mossa imprevista quella del presidente, il quale, costretto a fare i conti con un gradimento interno in declino a causa soprattutto della grave situazione economica, potrebbe così trarre vantaggio da una relativa distensione dei rapporti con Washington.

Di particolare rilevanza alla vigilia della sentenza di appello riguardante Roxana Saberi - condannata ad aprile a otto anni di carcere, ridotti ora a due, ma con sospensione della pena - sono state le dichiarazioni del Ministro degli Esteri iraniano e del Tribunale giudicante, i quali avevano affermato, tra lo stupore generale, che “tra Iran e Stati Uniti non esiste alcuna ostilità”. Affermazioni sorprendenti che, non solo hanno permesso ai legali della Saberi di chiedere lo stralcio delle accuse di spionaggio, ma che promettono anche di alimentare il dibattito interno all’Iran da qui alla metà di giugno, quando Ahmadinejad dovrà fronteggiare la sfida del candidato riformista moderato Mir-Hossein Mousavi.

L’esito della vicenda Saberi, secondo molti analisti, rivelerebbe anche una profonda divisione nei vertici iraniani circa l’atteggiamento da tenere nei confronti delle recenti aperture di Obama. Ma anche il prevalere, almeno per il momento, delle forze maggiormente disponibili al dialogo, dal momento che un epilogo negativo avrebbe rappresentato un nuovo ostacolo nel processo di riavvicinamento tra i due paesi. Un percorso faticoso in ogni caso, ma che all’indomani della fine della presidenza Bush aveva già fatto segnare qualche timido segnale di progresso.

Come testimoniano, ad esempio, il messaggio video inviato da Obama al popolo iraniano in occasione del capodanno persiano o l’annunciata disponibilità americana di tornare al tavolo delle trattative per la scottante questione del programma nucleare di Teheran. Nonostante la distanza tra Iran - a grande maggioranza sciita - e USA sia andata allargandosi negli ultimi otto anni, i due paesi condividono quanto meno l’obiettivo di contenere l’influenza talebana (sunnita) in Pakistan e in Afghanistan.

Al di là delle trame che ruotano attorno ai rapporti diplomatici tra USA e Iran, e ai rapporti di forza in fase di consolidamento in quest’ultimo paese a poco meno di un mese dalle elezioni presidenziali, il caso Saberi nella stampa occidentale ha ruotato in gran parte attorno al pessimo stato dei diritti umani nella Repubblica Islamica. La discussione, pressoché a senso unico, non ha, se non in qualche caso, affrontato le distorsioni prodotte anche in questo ambito dalla “guerra al terrore” inaugurata da George W. Bush e che continuano ad incontrare solo sporadiche critiche od obiezioni.

Fin dal 2001 infatti, erano iniziate le incarcerazioni al limite della legalità di giornalisti nei paesi teatro della guerra al terrorismo dichiarata dalla precedente amministrazione. Uno dei casi più eclatanti è quello del cameraman sudanese di Al Jazeera, Sami al-Haj, catturato in Pakistan tre mesi dopo l’11 settembre: deportato dapprima a Bagram e successivamente a Guantanamo, venne poi rilasciato senza alcuna accusa a suo carico il primo maggio dello scorso anno. Se al-Haj ha quanto meno potuto contare, tra gli altri, sulla solidarietà dell’autorevole editorialista del New York Times, Nicholas Kristof, il quale gli dedicò un articolo nell’ottobre del 2006, meno interesse avevano suscitato al contrario le vicende di Bilal Hussein, fotografo Premio Pulitzer della Associated Press, e Ibrahim Jassam, anch’egli fotografo per la Reuters.

Il primo era stato arrestato nell’aprile del 2006 in Iraq con l’accusa, resa pubblica dalle autorità americane solo l’anno successivo, di aver appoggiato i ribelli. Consegnato alla giustizia irachena, Hussein sarebbe stato in seguito prosciolto e rilasciato il 16 aprile 2008, in quanto “non rappresentava più una minaccia per la sicurezza” americana. Per Ibrahim Jassam, invece, l’ordine di scarcerazione emesso da un tribunale iracheno lo scorso dicembre non gli ha ancora consentito di lasciare la prigione di Camp Cropper, presso l’aeroporto di Baghdad. L’esercito di occupazione americano afferma infatti di possedere presunte informazioni di intelligence - ovviamente mai rivelate pubblicamente o condivise con la giustizia irachena - che indicano come il fotografo della Reuters sia tuttora una minaccia per la sicurezza e la stabilità dell’Iraq.

Gli episodi descritti non costituiscono purtroppo un caso isolato, come ricorda un recente rapporto del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ). A farne le spese sono soprattutto operatori di media iracheni, alcuni dei quali sono stati arrestati dalle truppe americane e rilasciati pochi giorni più tardi, mentre altri hanno trascorso periodi di svariati mesi - se non addirittura anni - nelle carceri militari, senza alcuna accusa specifica o prova a carico. Una pratica che si inserisce alla perfezione nella strategia consolidata della guerra preventiva di Bush e Cheney, ma che Obama, con o senza lo stimolo delle presunte voci autorevoli del giornalismo a stelle e strisce, sarà chiamato a chiudere una volta per tutte, così da estirpare definitivamente quella cultura dell’impunità coltivata negli ultimi otto anni a Washington e sui campi di battaglia della “guerra al terrore”.

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