di Eugenio Roscini Vitali

Il controverso risultato del 12 giugno segna senza dubbio l’inizio di un nuovo capitolo nella storia dell’Iran, un passaggio importante verso una controrivoluzione culturale che sembra decisa a scardinare l’architettura istituzionale di un regime che rappresenta la parte peggiore della Rivoluzione islamica del 1979. A dar vita ai cortei e alle manifestazioni di piazza sono stati le ragazze ed i ragazzi di Teheran, studenti ed universitari che con grande coraggio hanno deciso di protestare contro il verdetto di una elezione che ritengono manipolata; un verdetto che, a sorpresa, sancisce la vittoria della destra radicale e permette a Mahmoud Ahmadinejad di essere eletto, per la seconda volta consecutiva, presidente della Repubblica islamica. Nel 2005 Ahmadinejad aveva ottenuto il successo proponendo una piattaforma populista che prometteva di battersi contro un sistema corrotto ed inefficiente, un programma di re-distribuzione verso il basso delle ricchezze che aveva trovato l’appoggio dell’apparato militare ed incantato le fasce più povere del paese, le classi sociali meno abbienti dove la gente paga ogni giorno con la povertà le scelte di un regime soverchiante. I risultati? Quattro anni di presidenza fallimentari, sotto ogni punto di vista: economico, politico e sociale. E allora perché questa riconferma? Per la prima volta nella storia della Repubblica islamica, le elezioni del 2005 vengono decise al secondo turno: con più di 17 milioni di voti Ahamadinejad raggiunge il 61,7% delle preferenze; Rafsanjani viene votato da 10 milioni di iraniani, pari al 35,9% dei consensi. La vittoria non arriva solo grazie ad una base elettorale essenzialmente composta dagli abitanti delle aree rurali e dalla classe medio bassa della provincia ma soprattutto a causa della scarsa affluenza alle urne che con il 64% degli aventi diritto sottolineare la mancata legittimazione di un sistema che continua a reprimere le libertà fondamentali e spesso calpesta i diritti umani. A disertare il voto sono gli studenti universitari, i giovani e gli intellettuali che nel 1979 non erano ancora nati e che rappresentano più della metà di una popolazione fortemente delusa dall’era Khatami e da un riformismo mai realmente applicato. Ma Ahmadinejad non è nuovo a questo tipo di “miracoli”: il 28 febbraio 2003 viene eletto sindaco di Teheran proprio grazie all’astensionismo. A votare per le amministrative è solo il 12% degli elettori; con lo stesso sistema nel 2004 i conservatori conquistano il Majlis, il Parlamento iraniano.

Questa volta però le cose sono andate in modo diverso: a differenza delle scorse presidenziali, il 12 giugno l’affluenza ha raggiunto uno straordinario 80%. Un dato essenziale per comprendere come il 33% ottenuto dal 67enne leader dei conservatori moderati, Mir Hossein Mussavi, considerato dagli osservatori come uno dei favoriti nella corsa alla presidenza, possa apparire alquanto inverosimile e i 24 milioni di voti assegnati ad Ahmadinejad una maldestra montatura. Per legittimare la sua elezione, il leader della destra radicale si rifà a quanto accade nei più avanzati e democratici sistemi elettorali del mondo. Ma le testimonianze dei giornalisti indipendenti e le immagini trasmesse dalla BBC e dalla CNN danno una chiave di lettura completamente diversa: centinaia di poliziotti antisommossa e miliziani integralisti che caricano i dimostranti; acido lanciato dagli elicotteri, lacrimogeni, idranti e manganelli per disperdere la folla; uso delle armi da fuoco contro i civili.”

La repressione però non ferma la “protesta verde”: al contrario Mussavi attacca apertamente Ahmadinejad, accusandolo di brogli “pianificati da mesi” e, senza nominarlo esplicitamente, critica l'ayatollah Khamenei con una denuncia che parla di complotto che mira ad imporre un nuovo sistema politico. Non risparmia neanche il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, che vorrebbe risolvere la questione facendo ricontare “in maniera casuale” il 10% delle schede votate, e si prepara all’arresto chiedendo ai suoi sostenitori di paralizzare il Paese con uno sciopero generale a tempo indeterminato. La contestazione ormai cresce in modo autonomo, giorno dopo giorno, ed è evidente che se dovesse fallire per l’Iran sarebbe un duro colpo. Per ora il regime non calca la mano e lascia che i contestatori reagiscano alla violenza con altra violenza: Basiji buttati giù dalle loro moto e picchiati; pietre contro la polizia; cassonetti incendiati ed edifici dati alle fiamme; una valvola di sfogo che Ahmadinejad spera si esaurisca nell’arco di un paio di settimane e che intanto usa per guadagnare tempo costruire la favola del grande complotto internazionale.

Le parole dell’Ayatollah Ali Khamenei, che durante le tradizionali preghiere del venerdì tenutesi all’Università di Teheran aveva accusato alcuni Paesi occidentali di interferenze e affermato che i raduni di piazza dovevano cessare, hanno legittimano di fatto la vittoria di Ahmadinejad ed hanno dato il via ad una nuova clamorosa operazione di depistaggio. Per voce del ministro degli esteri, Manuchehr Mottaki, il regime ha accusato Stati Uniti e Gran Bretagna d’interferenze negli affari interni della Repubblica Islamica ed ha affermato che a voler rovesciare il governo sarebbero i mujaheddin del popolo, un gruppo armato che ha trovato rifugio a Londra ed ha le sue basi operative nell’Iraq meridionale dove gode dell’appoggio e dell’addestramento delle truppe britanniche. Un complotto organizzato negli ultimi due anni andrebbe ricollegato all’incremento di persone provenienti dal Regno Unito, persone entrate in Iran e ritenute legate ai servizi segreti inglesi. Un teorema che il riformista Khatami considera come l’indicazioni di una falsa politica che potrebbero avere pericolose conseguenze e che per ora, dopo l’espulsione del corrispondente della BBC, Jon Leyne, ha portato all’arresto, senza accuse, del reporter del Newsweek, Maziar Bahari.

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