di Michele Paris

Il 9 settembre prossimo la Corte Suprema degli Stati Uniti aprirà il dibattito intorno ad un caso che molti giuristi americani reputano tra i più importanti e delicati degli ultimi decenni. Nato in seguito allo stop decretato dalla Commissione Elettorale Federale ad un film-documentario teso a screditare la figura di Hillary Clinton alla vigilia delle primarie democratiche dello scorso anno, il caso in questione potrebbe cancellare i limiti attualmente fissati per legge ai finanziamenti che le grandi corporation possono elargire ad un candidato in una qualsiasi tornata elettorale. L’attesa decisione del supremo tribunale statunitense ha già causato profonde divisioni tra quanti vedono come fumo negli occhi ogni regolamentazione governativa alla libertà di opinione ed altri preoccupati per la minaccia alla democrazia dello strapotere delle grandi aziende. Il lungometraggio in questione - dal titolo “Hillary: The Movie” - è stato prodotto dall’associazione conservatrice Citizens United ed era pronto per la distribuzione sulla TV via cavo ad inizio 2008, quando un’ordinanza della Commissione Elettorale Federale (FEC) lo bloccò, facendo riferimento al dettato del cosiddetto McCain-Feingold Act, la legge del 2002 che regola il finanziamento delle campagne elettorali e vieta l’utilizzo di denaro proveniente dalle casse delle corporation per sostenere i candidati alle elezioni.

A questa sentenza si sarebbe allineato poco dopo anche il tribunale distrettuale del District of Columbia, che impedì così la diffusione del film, disponibile comunque su Internet e in DVD, fortemente critico dell’ex first lady in quel momento impegnata nelle prime fasi della sua corsa alla nomination democratica. Secondo la corte infatti, il solo scopo del documentario era quello di “informare l’elettorato che la Senatrice Clinton non era idonea a ricoprire la carica di presidente, che gli Stati Uniti sarebbero stati in pericolo in caso di una sua vittoria e che perciò gli spettatori avrebbero dovuto votarle contro”.

La questione, pur apparendo inizialmente di scarso rilievo, è finita invece sull’agenda della Corte Suprema che ha inizialmente aperto il dibattito a fine marzo scorso, per poi rimandare il tutto ai primi di settembre. La volontà di alcuni giudici di voler ampliare l’ambito della loro imminente deliberazione, così da sconvolgere le regole del finanziamento delle campagne elettorali negli Stati Uniti e i meccanismi stessi della selezione del potere, è stata stimolata da una risposta data da un avvocato del governo ad una domanda ipotetica nel corso del dibattimento. Secondo quest’ultimo infatti sarebbe illegale anche la distribuzione di un libro scritto unicamente con lo scopo di far eleggere o meno un candidato, se finanziato da una corporation. La presa di posizione del rappresentante del governo ha turbato profondamente soprattutto gli esponenti più conservatori della Corte Suprema, che hanno così deciso di analizzare più a fondo alcune implicazioni costituzionali toccate inizialmente solo di sfuggita.

La domanda sulla sorte di un libro di questo genere risulta peraltro puramente ipotetica, in quanto la legge McCain-Feingold del 2002, o “Bipartisan Campaign Reform Act”, riguarda esclusivamente materiale video trasmesso sulle TV terrestri, satellitari o via cavo. Il principio costituzionale riguardante la facoltà delle grandi aziende di finanziare in maniera illimitata un candidato a loro gradito è però identico, al di là del mezzo di diffusione del materiale propagandistico. Da qui la decisione della Corte di occuparsi dell’intera questione e di rimandare il proprio verdetto.

Il caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale”, in caso di parere opposto da parte dei giudici della Corte Suprema rispetto alle due precedenti deliberazioni della stessa Commissione e del tribunale distrettuale, minaccia così annullare due sentenze fondamentali che negli ultimi due decenni hanno fissato le regole di un sistema di finanziamento alle campagne elettorali che già fa acqua da più parti.

La prima, “Austin contro Camera di Commercio del Michigan” del 1990, confermò la validità di una legge statale – del Michigan, appunto – che impediva alle corporation di usare l’immensa quantità di denaro a loro disposizione per acquistare spazi pubblicitari volti a sostenere od ostacolare un candidato. A questa sentenza si opposero i giudici dell’ala conservatrice Anthony Kennedy e Antonin Scalia, entrambi facenti parte tuttora della Corte Suprema. La seconda, “McConnell contro Commissione Elettorale Federale” del 2003, sostenne invece la legittimità della legge McCain-Feingold. Anche in questo caso votarono contro la maggioranza tre giudici conservatori che ancora oggi fanno parte della Corte: Clarence Thomas, oltre agli stessi Kennedy e Scalia.

La rarità con cui la Corte Suprema aggiorna il dibattito sugli argomenti all’ordine del giorno fa temere che la maggioranza dei giudici che la compongono sia intenzionata a recepire le perplessità che da più parti negli USA sono emerse nell’ultimo periodo intorno ai vincoli della legge sul finanziamento delle campagne elettorali. Dall’ultima sentenza su questo argomento – nel 2003 – la Corte Suprema degli Stati Uniti ha subito inoltre un netto spostamento a destra, in seguito alla sostituzione della moderata Sandra Day O’Connor con il ben più conservatore Samuel Alito jr, nominato da George W. Bush nel 2006.

La recente nomina di Sonya Sotomayor da parte di Obama, al contrario, non sposterà gli equilibri in questo caso, dal momento che la prima giudice latino-americana della Corte, di orientamento relativamente progressista, è andata a sostituire David H. Souter, sempre schierato in passato a favore della regolamentazione del finanziamento delle campagne elettorali. Dei nove giudici che compongono oggi il tribunale costituzionale americano insomma, cinque risultano scettici riguardo ogni restrizione fissata dal governo, facendo appello al Primo Emendamento della Costituzione che proibisce espressamente, tra l’altro, di promulgare leggi che ostacolino la libertà di espressione.

Da oltre un secolo a questa parte, la tendenza del Congresso degli Stati Uniti d’America è stata quella di stabilire regole certe per limitare l’influenza dei poteri forti sulla politica, fin da quando cioè la campagna per la rielezione di Theodore Roosevelt a presidente nel 1904 rischiò di naufragare in seguito alle rivelazioni di contributi segreti a suo favore provenienti da alcune compagnie di assicurazioni di New York. In precedenza, già sul finire del XIX secolo, stati come il Kentucky, la Florida, il Missouri, il Nebraska e il Tennessee avevano approvato leggi per tenere lontano il più possibile il denaro delle corporation dalle elezioni locali.

Il significato e l’essenza stessa del processo elettorale appaiono ora in pericolo, in nome della libertà di espressione. “Colossi bancari come Citigroup e Merrill Lynch, oppure delle assicurazioni come AIG, diventerebbero improvvisamente liberi di poter spendere centinaia di milioni di dollari per sostenere candidati pronti a soddisfare le loro richieste, così come per contrastare altri che si rifiutano di piegarsi alle loro richieste”, avverte Fred Wertheimer, presidente dell’associazione no-profit Democracy 21.

Secondo l’attuale legislazione, un qualsiasi gruppo di interesse che desidera contribuire alla campagna di un candidato può farlo solo attraverso un Comitato di Sostegno Elettorale (PAC) che a sua volta ha però facoltà di raccogliere fondi esclusivamente tramite contributi di singoli cittadini ed entro limiti ben precisi (in genere, 5.000 dollari per ogni candidato e per ogni tornata elettorale).

Nell’orbita delle organizzazioni a difesa dei diritti civili tuttavia non mancano le divisioni. Mentre la maggior parte dei gruppi di orientamento liberal appoggia la decisione della Commissione Elettorale Federale, l’autorevole “American Civil Liberties Union” (ACLU), nonostante il dissenso interno, per l’occasione si trova schierata, ad esempio, a fianco della principale lobby delle armi (“National Rifle Association” o NRA) a sostegno della Citizens United e della distribuzione del documentario da essa finanziato e prodotto.

Secondo alcuni d’altra parte, la cancellazione della distinzione da un punto di vista legale tra corporation e singolo individuo, da cui deriva la possibilità di spendere liberamente a favore di un candidato ad un pubblico ufficio, non rappresenterebbe la fine della democrazia. Tant’è vero che molti uomini d’affari spendono già somme enormi nel finanziamento di proprie campagne elettorali – come il sindaco di New York Michael Bloomberg, l’ex candidato alla nomination repubblicana Mitt Romney o il governatore del New Jersey Jon Corzine – o di quelle dei candidati a loro graditi – come il miliardario George Soros, vicino al Partito Democratico.

In vista del pronunciamento della Corte Suprema, per quanto esili, le speranze di quanti auspicano una conferma delle limitazioni imposte all’influenza del denaro della grande industria americana risiedono in una possibile sentenza limitata al caso del film-documentario su Hillary Clinton, escludendo ogni riferimento alle implicazioni costituzionali. La Corte potrebbe cioè facilmente deliberare a favore della Citizens United, dando il via libera alla distribuzione del lungometraggio ma sostenendo che esso non rientra nell’ambito della “comunicazione elettorale” stabilita dalla legge McCain-Feingold.

Oppure potrebbe decidere che la Citizens United è un’organizzazione che non può essere considerata una corporation secondo il dettato della legge sul finanziamento delle campagne elettorali. Opzioni queste che placherebbero i paladini del Primo Emendamento ma che al tempo stesso eviterebbero lo smantellamento delle già esigue barriere all’influenza del denaro nella politica americana.

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