di Michele Paris

Una nuova tegola è caduta lo scorso fine settimana su un’amministrazione Obama già alle prese con una complicata battaglia per l’approvazione della riforma sanitaria e con il crollo di consensi per la guerra in Afghanistan. In seguito ad una valanga di critiche ed attacchi gratuiti provenienti dai repubblicani e dai commentatori politici di destra, il consigliere speciale del presidente per la creazione di posti di lavoro nell’ambito delle energie rinnovabili - il 40enne di colore Van Jones - è stato costretto ad abbandonare il proprio incarico. Le sue dimissioni sono state immediatamente accettate dalla Casa Bianca, che non ha esitato a liquidare un personaggio scomodo con un passato da attivista per i diritti umani ed uno dei pochissimi politici in una posizione di spicco a non provenire dalle file delle grandi corporation americane. L’allora neo-presidente Obama lo scorso mese di marzo aveva scelto Van Jones - attivista, avvocato e scrittore del Tennessee con una laurea in Legge a Yale - per entrare a far parte del gruppo di consiglieri per la qualità dell’ambiente dopo la profonda impressione che aveva esercitato, tra gli altri, su due pesi massimi del Partito Democratico come Al Gore e Nancy Pelosi. Come Obama a Chicago, anche Van Jones poteva vantare un passato da carismatico “community organizer” a San Francisco, dove si era guadagnato una fama negli ambienti dell’attivismo per la lotta contro il cambiamento climatico. La sua presenza a Washington avrebbe dovuto così contribuire a delineare una visione compiuta di una nuova economia “verde” a beneficio del Congresso a maggioranza democratica.

In California però, l’ormai ex consigliere di Obama ha commesso l’errore che ha consegnato in questi giorni nelle mani dei falchi conservatori il pretesto per condurre una violenta campagna di discredito nei suoi confronti e che è sfociata inevitabilmente in dimissioni tutt’altro che rimpiante dalla Casa Bianca. Nel 2004, infatti, Van Jones firmò una petizione dell’organizzazione 911Truth.org che accusava i vertici dell’amministrazione Bush di aver deliberatamente permesso gli attacchi dell’11 settembre allo scopo di giustificare una guerra in Medio Oriente.

A fornire ulteriore materiale per le critiche della destra è stata poi anche un’espressione non esattamente cordiale utilizzata da Jones nel riferirsi ai repubblicani poco prima della sua nomina, così come deve aver disturbato non pochi il suo appoggio pubblico dato al condannato a morte di colore Mumia Abu-Jamal, ex membro delle Pantere Nere ed accusato di aver assassinato nel 1981 un poliziotto di Philadelphia in un processo molto controverso. La macchia più grande di Jones per la destra radicale rimane tuttavia il suo attivismo politico e i suoi legami con i movimenti radicali di protesta, per non parlare del colore della pelle, dal momento che le critiche hanno iniziato a piovergli addosso ben prima che la sua firma sulla petizione del 2004 venisse alla luce.

Gli attacchi frontali nei suoi confronti erano partiti a luglio dall’agitatore e demagogo di Fox News Glenn Beck, il quale aveva suscitato la reazione sdegnata dell’organizzazione no-profit “Color Of Change”, co-fondata dallo stesso Van Jones, dopo aver definito Obama razzista. Mentre il gruppo faceva appello alle aziende per non acquistare spazi pubblicitari nel programma televisivo di Beck, quest’ultimo iniziava la sua battaglia personale con il consigliere del presidente, intensificando i propri attacchi e definendolo, tra l’altro, “radicale anarco-comunista”. Gli assalti a Jones hanno cominciato a moltiplicarsi nei media conservatori, finché la scoperta di un blogger della petizione sull’11 settembre ha fatto aumentare le pressioni sulla Casa Bianca.

Senza ottenere un appoggio convinto da parte del presidente e del suo staff, Jones ha finito per dare l’addio all’amministrazione Obama, che ha tirato verosimilmente un sospiro di sollievo per non dovere sostenere ulteriori attacchi alla vigilia della riapertura dei lavori al Congresso per la riforma del sistema sanitario. “Il presidente ringrazia Van Jones per i servizi resi in questi primi otto mesi di mandato, per l’aiuto fornito nel coordinare la strategia per la creazione di nuovi posti di lavoro nell’ambito delle energie rinnovabili e per aver gettato le basi del nostro sviluppo economico del futuro”, sono state le parole del portavoce della Casa Bianca che non hanno nascosto la freddezza nei confronti del consigliere dimissionario.

Da parte repubblicana, alcuni parlamentari non hanno perso tempo nel criticare i metodi di valutazione messi in campo dall’amministrazione Obama per scegliere i candidati a entrare a far parte dello staff presidenziale. I consiglieri della Casa Bianca - i cosiddetti consiglieri speciali o “zar” - a differenza dei membri del gabinetto non sono d’altra parte sottoposti al voto di conferma del Senato, ragione per cui sui precedenti di Van Jones non sarebbero state effettuate ricerche sufficientemente approfondite.

Già agli albori della sua presidenza, peraltro, Obama aveva visto naufragare le candidature di altre personalità di spicco a causa di vicende precedenti alla nomina sulle quali si era chiuso un occhio o erano sfuggite alle squadre di esaminatori, tra cui quelle di Tom Daschle alla guida del Dipartimento della Salute e di Nancy Killefer all’ufficio per il budget, entrambi travolti da scandali legati a tasse non pagate.

La conseguenza più inquietante dell’intera vicenda, aggravata dall’inefficace reazione dell’amministrazione Obama, è che con la dipartita di Van Jones la Casa Bianca ha perso una delle poche personalità, per non dire l’unica, realmente progressista e proveniente dal mondo dei movimenti di protesta e dell’attivismo democratico. L’entourage di Obama risulta così sempre più affollato di ex consulenti o membri dei consigli di amministrazione di grandi banche di investimento, a cominciare dal primo consigliere economico del presidente, Larry Summers, e dal capo di gabinetto, Rahm Emanuel.

Le dimissioni di Van Jones, inoltre, difficilmente contribuiranno a placare gli animi di una destra sempre più pericolosamente combattiva e già protagonista della distorsione del dibattito sulla riforma sanitaria durante l’estate. Sul fronte opposto, la delusione dell’elettorato liberal risulta palpabile e va ad aggiungersi allo sconforto già troppe volte provato in questa fase iniziale del primo mandato di Obama per la mancanza di incisività dimostrata in diversi ambiti. Il tutto, ancora una volta, a discapito del livello di gradimento di un presidente giunto invece a Washington sull’onda di un’enorme popolarità e di una promessa di cambiamento radicale del sistema.

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