di Elena Ferrara

A Pyongyang la dirigenza coreana non tollera altro culto se non quello che ogni cittadino deve tributare all’ex presidente Kim II-sung e a suo figlio, l’attuale leader Kim Jong-il. E’ questa la tragica realtà geopolitica che domina la monarchia locale e che mostra sempre più - nei confronti delle vicende religiose - un silenzio enigmatico e inquieto. Intanto numerose e quotidiane sono le violazioni che si registrano nel campo della libertà religiosa, anche con numerosi casi di arresto e di deportazione.

La storia del Paese, comunque, ci ricorda anche altri momenti. E precisamente il tempo in cui la capitale era chiamata “la Gerusalemme dell’Est”. Quando a metà del ventesimo secolo, il 30% dei suoi abitanti erano cristiani, contro appena l’1% del resto del Paese. Le persecuzioni degli anni Cinquanta presero poi di mira in particolare i cristiani. Ed oggi a Pyongyang - riferiscono i diplomatici occidentali che si trovano nel paese - si possono trovare solo alcune chiese prive di difese istituzionali e diplomatiche.

Ovviamente la Costituzione autorizza la libertà di culto, ma in realtà opera con il filtro di federazioni cristiane ufficiali, controllate dal governo. Sono così riconosciuti 15 mila cristiani dichiarati, senza distinzione di confessioni (prima del 1949, i cattolici erano 55mila). Resta però da capire cosa si nasconda dietro queste cifre, che rivelano pur sempre uno stato di decomposizione accelerata. Ad esempio, la chiesa cattolica di Jangchung, quartiere est della capitale, non ha un parroco: negli anni Ottanta il Vaticano si sarebbe rifiutato di ordinare un candidato mandato a Roma dal governo coreano.

Situazione estremamente complessa anche quella che riguarda la chiesa ortodossa. I suoi sacerdoti - diplomati al Dipartimento di religione dell’universit? Kim II-sung, la più prestigiosa del Paese - erano stati mandati a Mosca in seminario per essere “istruiti” ed ammessi “all’esercizio spirituale”. Ma dopo quattro anni sono rientrati e la chiesa (dedicata alla “Trinità”) è restata vuota, pur se il rapporto fra il patriarcato moscovita e la piccola comunità ortodossa nordcoreana è stretto e risale a molto tempo fa. In proposito va ricordato che una missione spirituale russo-ortodossa si era stabilita in Corea nel luglio del 1897.

La benedizione della prima pietra della chiesa ortodossa di Pyongyang era poi avvenuta nell’aprile 2003 per mano dell'arcivescovo di Kaluga e Borovsk, Climent. Toccò poi al vescovo russo di Yegoryevsk, Marc, ordinare diaconi due studenti nordcoreani, Theodore Kim e John Ra, nel maggio del 2003. Quanto ai protestanti coreani c’è un loro tempio a Bongsu, che ogni settimana accoglie i fedeli, tra cui una decina di occidentali residenti a Pyongyang.

Di fatto questa manciata di chiese sotto controllo è una vetrina per consentire al governo di proclamare che la libertà di culto - pur se tra manovre incrociate e contraddittorie - viene rispettata, mentre in tutto il Paese, praticamente, si d? la caccia ai cristiani. La presenza di alcune strutture religiose, comunque, è anche fonte di introiti: perchè senza eccezioni consente di attrarre l’aiuto offerto da numerose organizzazioni confessionali straniere. Un afflusso di capitali non trascurabile per un Paese esangue, sottoposto alle sanzioni dell’Onu.

Il rapporto tra il governo del Nord e le chiese, intanto, si tinge spesso di giallo con situazioni incontrollabili. E’ quello, ad esempio, ampiamente ripreso dalla stampa sudcoreana, che ha riferito dell’esecuzione pubblica, presso la frontiera cinese, di una nordcoreana di 33 anni, accusata di distribuire Bibbie e di spionaggio per conto degli Stati Uniti.

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