di Michele Paris

Sono stati necessari mesi di negoziazioni con le potenze più recalcitranti, ma alla fine gli Stati Uniti sono riusciti a lanciare una nuova intimidazione nei confronti dell’Iran e a far approvare la quarta serie di sanzioni economiche presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Con dodici voti su quindici a favore, le misure restrittive adottate mercoledì fanno segnare un ulteriore passo avanti nell’escalation delle tensioni con Teheran intorno al programma nucleare della Repubblica Islamica.

I nuovi provvedimenti, sia pure mitigati dalla mediazione di Cina e Russia, aprono la strada a disposizioni decisamente più dure da parte dei singoli governi occidentali e rischiano seriamente di vanificare i progressi fatti segnare solo poche settimane fa dal negoziato promosso da Brasile e Turchia.

Proprio questi ultimi due paesi, tra gli attuali membri provvisori del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sono stati gli unici a votare contro le sanzioni. Il Libano, in seguito alle pressioni esercitate personalmente del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, sul presidente Michel Suleiman, si è invece astenuto. La decisione libanese è giunta solo dopo un acceso dibattito interno al proprio gabinetto, del quale fanno parte ministri del partito filo-iraniano Hezbollah. I primi due round di sanzioni, nel 2006, erano stati approvati all’unanimità, mentre il terzo, nel 2008, aveva fatto registrare la sola astensione dell’Indonesia.

L’obiettivo primario delle nuove sanzioni è rappresentato in sostanza dalle attività militari, commerciali e finanziarie dei Guardiani della Rivoluzione che controllano il nucleare iraniano e che negli ultimi anni hanno assunto un ruolo centrale nella gestione del sistema economico del paese. Qualche decina di aziende statali sono finite su una lista nera, così come sono state confermate le restrizioni già adottate verso 40 personalità legate allo stesso programma nucleare, alle quali va aggiunto ora Javad Rahiqi, direttore del centro di ricerca sul nucleare di Isfahan.

Navi e aerei diretti in Iran potranno inoltre essere ispezionati in paesi terzi nel caso emergessero sospetti che le merci trasportate abbiano a che fare con lo sviluppo del programma nucleare. Non è prevista comunque l’autorizzazione a impiegare la forza per ispezionare le navi in acque internazionali. Alle compagnie energetiche iraniane non sarà poi consentito di investire all’estero in centrali nucleari, così come nell’estrazione di uranio e in altri progetti legati alla tecnologia nucleare. Sul fronte militare, saranno bandite le vendite di armi pesanti, una condizione criticata anche da alcuni sostenitori delle sanzioni, in quanto proprio il mancato accesso ad armi convenzionali potrebbe spingere l’Iran a sviluppare armi atomiche.

Di fronte alle resistenze cinesi, è invece caduta la proposta americana di implementare misure nei confronti delle banche e delle compagnie assicurative iraniane. Solo una banca alla fine è finita sulla lista nera delle società approvata dall’ONU. Sia Pechino che Mosca si sono adoperate soprattutto per proteggere i rispettivi interessi economici che le legano a Teheran: la Cina, ad esempio, riceve dall’Iran il dieci per cento del petrolio che importa. Il passaggio di sanzioni relativamente leggere, insomma, sembra essere stato valutato come il male minore rispetto ad un possibile attacco americano o israeliano alle installazioni nucleari iraniane nel prossimo futuro. La sostanza delle sanzioni, in ogni caso, risulta di minore importanza rispetto alla scelta di chiusura al dialogo scelta dagli Stati Uniti e dall’ONU.

Mentre il Congresso USA si appresta ora a varare un pacchetto di misure unilaterali più pesanti, al termine della votazione i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza hanno rilasciato una dichiarazione separata che ribadisce il desiderio di proseguire sulla strada diplomatica per risolvere la crisi. Allo stesso modo, Hillary Clinton dalla Colombia si è detta convinta che Brasile e Turchia continueranno a giocare un ruolo cruciale nello sforzo diplomatico verso l’Iran.

Una schizofrenia quella del governo americano suggellata dallo stesso presidente Obama, il quale ha dichiarato che la sua amministrazione “fin dall’inizio si è resa disponibile a perseguire una soluzione diplomatica”, mentre l’Iran si è rifiutato di rispondere alle aperture occidentali. Una ricostruzione questa che ribalta completamente la realtà dei fatti degli ultimi mesi, segnati precisamente dalla chiusura totale di Washington ai segnali di disponibilità provenienti da Teheran.

Sia pure dovendo far fronte a molte pressioni interne e alla tradizionale profonda diffidenza verso gli USA negli ambienti più conservatori, il governo iraniano aveva infatti lanciato segnali significativi fin dallo scorso autunno. In una conferenza promossa dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), l’Iran aveva accettato la proposta occidentale di spedire una parte del proprio uranio a basso livello di arricchimento all’estero per ottenere in cambio combustibile nucleare che avrebbe alimentato un reattore da utilizzare a scopi medici.

Dopo che la trattativa si era arenata, la proposta di accordo era riemersa recentemente grazie all’intervento del premier turco Erdogan e del presidente brasiliano Lula. Gli Stati Uniti hanno però ignorato l’accordo, del quale non si è praticamente trovata traccia nemmeno nella risoluzione finale approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’amministrazione Obama, così, ha chiuso qualsiasi spiraglio al dialogo, sostenendo che l’Iran possiede oggi una quantità maggiore di uranio arricchito rispetto a qualche mese fa e che, anche in caso di accordo sul compromesso mediato da Brasile e Turchia, non avrebbe comunque accettato la richiesta di fermare il proprio programma di arricchimento, secondo gli USA finalizzato alla realizzazione di armi atomiche.

Le nuove sanzioni, al di là della dubbia efficacia, sembrano rispondere ad un piano teso ad isolare Teheran e possibilmente a creare un clima propizio all’uso della forza, con lo scopo ultimo di installare un regime più favorevole all’occidente. Di questo disegno fa parte anche il ripudio più o meno ufficiale di un rapporto dell’intelligence americana del 2007, che rivelava come la leadership iraniana aveva in realtà messo da parte i progetti di sviluppo di un’arma nucleare. Questo rapporto, contestato da Israele e da altre agenzie occidentali, finora ha, di fatto, rappresentato uno degli ostacoli principali ad un attacco militare.

Se infine gli USA hanno potuto contare sul voto favorevole di Russia e Cina all’interno del Consiglio di Sicurezza per aumentare la pressione su Teheran, non è detto che le sanzioni rappresentino la mossa più efficace per la risoluzione dell’impasse iraniana. Pur messa da parte dagli ultimi sviluppi, è invece l’intesa raggiunta da Brasile e Turchia lo scorso mese di maggio ad apparire come un importante successo diplomatico, svincolato dalle tradizionali potenze e che potrebbe addirittura prefigurare nuovi equilibri su scala planetaria. Per il momento, quanto meno, ha contribuito a rivelare l’immutata intransigenza degli Stati Uniti verso quei paesi non graditi che hanno scelto un percorso divergente dai loro interessi strategici.

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