Dopo il discorso che aveva tenuto nel 1995 proprio a Pechino durante una conferenza dell’ONU, nel quale aveva denunciato apertamente le violazioni dei diritti umani in Cina, Hillary aveva alimentato la speranza alla vigilia del suo viaggio di poter sollevare quest’ultima questione di fronte alle autorità del Partito Comunista Cinese. Le occasioni d’altra parte non sarebbero mancate. Dalla repressione in Tibet al soffocamento delle aspirazioni indipendentiste della regione occidentale dello Xinjiang, dalle intimidazioni esercitate sui famigliari delle vittime del terremoto del Sichuan dello scorso maggio ai campi di lavoro o alla politica a dir poco autoritaria sul controllo delle nascite. Fino al giro di vite su dissidenti e possibili dimostranti nei giorni precedenti la visita del Segretario di Stato americano.

Per organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, tra le altre, è stato così un vero e proprio affronto ascoltare le dichiarazioni della ex pretendente alla Casa Bianca nella capitale cinese. Rompendo un’etichetta consolidata della diplomazia a stelle e strisce che raccomanda dichiarazioni di facciata volte ad assicurare la comunità internazionale circa il costante monitoraggio della situazione dei diritti umani, senza mezze misure Hillary ha tagliato corto, annunciando che non avrebbe permesso a tali dispute di interferire con le sfide legate alla crisi economica e al riscaldamento globale. “Sappiamo già quello che direbbero”, è stata una delle frasi più discusse della Clinton in riferimento alla verosimile reazione cinese al sollevamento delle questioni del Tibet o della libertà di religione.

Le violazioni dei diritti umani in Cina non devono cioè costituire ostacolo alcuno alla partnership che Pechino e Washington intendono consolidare nei prossimi anni, anche in vista dell’escalation nucleare della Corea del Nord. Hillary in realtà ha fatto sapere di aver parlato del Tibet con il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi e con il presidente Hu Jintao ma, allo stesso tempo, ha ribadito ai suoi critici l’importanza rivestita dalle iniziative della società civile nell’avanzamento del rispetto dei diritti umani, attività che - a suo parere - possiede uguale rilevanza rispetto alle trattative portate avanti a livello governativo. A supporto di questa sua tesi, il Segretario di Stato ha infatti incontrato anche svariate associazioni costituite da cittadini cinesi, i quali le hanno riservato una calda accoglienza, sia pure tra lo scetticismo generalizzato per il miglioramento della situazione a breve termine nel proprio paese.

Le discussioni tra i vertici diplomatici americani e cinesi si sono concentrate piuttosto su altri aspetti. Con la Cina balzata al primo posto su scala planetaria per l’emissione di sostanze che contribuiscono al riscaldamento globale, l’avvertimento di Hillary a non ripetere gli stessi errori commessi dagli Stati Uniti nel proprio processo di sviluppo industriale è stato netto. Tale approccio è estremamente rivelatore dell’importanza che dovrà assumere la questione del cambiamento climatico per il nuovo inquilino della Casa Bianca, argomento che pare destinato ad essere il punto centrale attorno al quale dovrebbe svilupparsi il rimodellamento dei rapporti tra i due paesi. Una sfida a dir poco complicata, alla luce delle resistenze manifestate nel recente passato dal governo cinese e che rischia di trovare ulteriori ostacoli nella crisi economica in corso.

Anche in questo caso è comunque evidente la diversità di metodo scelto dalla nuova amministrazione americana nel plasmare i rapporti bilaterali con la Cina rispetto a quelli di George W. Bush, quasi esclusivamente basati sugli interessi economici e commerciali e perciò affidati alla responsabilità del Dipartimento del Tesoro. Una cooperazione economica in ogni caso rimane fondamentale per entrambe le parti in gioco: il superamento della crisi degli USA passa infatti anche attraverso l’acquisto del proprio debito pubblico da parte della Cina, così come per quest’ultima è di importanza vitale un mercato americano in salute che possa tornare ad accogliere i propri beni destinati all’esportazione. E Hillary Clinton ne è ovviamente ben consapevole. Ma le sfide che attendono i due paesi sono tali da richiedere un ripensamento complessivo delle proprie relazioni sotto la guida dei rispettivi vertici diplomatici.

L’atteggiamento tenuto da Hillary Rodham Clinton a Pechino, e criticato da molti, a ben vedere s’inserisce nella linea seguita nei giorni precedenti a Jakarta e a Seoul dove, contravvenendo nuovamente alle consuetudini diplomatiche, aveva ammesso apertamente l’inefficacia delle sanzioni internazionali nei confronti della giunta militare birmana ed aveva discusso in maniera esplicita la questione della successione a Kim Jong-Il in Corea del Nord. Un’impronta decisamente più realistica dunque, diametralmente opposta all’approccio della precedente amministrazione, ufficialmente sempre pronta alla difesa della democrazia in ogni parte del mondo ma concretamente disposta al compromesso con i regimi amici, anche se repressivi o profondamente antidemocratici.

Certo è troppo presto per ipotizzare su quali linee si svilupperà effettivamente la gestione del Dipartimento di Stato di Hillary Clinton o per azzardare possibili successi o un nuovo deterioramento delle relazioni internazionali. Ciò che s’intravede, tuttavia, al termine della sua prima apparizione ufficiale sulla scena internazionale, è forse l’indicazione della fine di una diplomazia fondata sul muro contro muro. Un’evoluzione che, visti i risultati degli otto anni di politica estera dell’amministrazione Bush, non può che promettere effetti benefici su molti fronti nel lungo periodo.

Dal mancato richiamo circa il rispetto dei diritti umani di questi giorni - un passo falso dal punto di vista dell’immagine, probabilmente, ma che in nulla peraltro avrebbe contribuito a migliorare la situazione dei cittadini cinesi bersaglio della repressione del regime - si potrebbe così giungere ad un progresso concreto nel prossimo futuro, magari stimolato da un confronto equilibrato e volto a far comprendere alle autorità cinesi che un passo avanti nel processo di democratizzazione del paese non potrebbe che risultare nel loro stesso interesse.
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