di Fabrizio Casari

Le elezioni legislative venezuelane di domenica prossima rappresentano un banco di prova importante per il paese caraibico. L’elemento di maggiore novità è rappresentato dal ritorno alla competizione elettorale dell’opposizione (MUD), che nella precedente tornata aveva deciso di non partecipare. La scusa, allora, era quella di non avere le garanzie sufficienti sul piano della regolarità della consultazione, ma la verità era un’altra: divisi e incapaci di capitalizzare politicamente le contraddizioni del paese, a fronte di risultati più che positivi sul terreno delle conquiste sociali ad opera del governo, non erano riusciti a trovare una figura all’altezza della sfida con il Presidente Chavez. E, sapendo di combattere una competizione già persa in partenza, decisero di utilizzare anche la scadenza istituzionale per tentare di gettare ulteriore discredito internazionale sul governo bolivariano.

Del resto, il golpe frustrato del 2002, i sabotaggi petroliferi e la propaganda folle, insieme alla mancanza di una figura leaderistica, non avevano reso l’opposizione un investimento credibile persino per i contrari al chavismo. La sigla che hanno scelto i nemici della rivoluzione (MUD - Mesa Unitaria Democratica) potrà anche evocare una sorta di unità, ma il fatto è che l’opposizione, lungi dall’essere percepita come un’alternativa politica, continuava - e in parte continua ancora - ad essere identificata come una masnada di personaggi dal dubbio passato e dall’incerto futuro, a fronte dei chiari interessi privati del presente.

Oggi, pur in assenza di significative variazioni, tanto in termini di spazi politici come di garanzie della correttezza nelle operazioni di voto (c'erano entrambi anche allora), la stessa opposizione che diceva di non usufruire di spazi e garanzie torna a sottoporsi al verdetto delle urne, confidando in un risultato che, quale che sia, certifichi la sua esistenza in vita e giustifichi il proseguimento di aiuti e prebende che l’Amministrazione Obama assegna generosamente.

In questo senso, anche una sconfitta che non avesse i termini della disfatta, tornerebbe utile per rilanciare la questua e la querula che, insieme alla diffamazione ed alla cospirazione, sono gli elementi fondamentali dell’attività politica e propagandistica antigovernativa. La decisione di rientrare nel gioco elettorale, del resto, è stata presa a Washington. L’Amministrazione Obama non è quella Bush e le operazioni di destabilizzazione del Venezuela possono essere incrementate solo giocando di sponda con un’opposizione formale che possa essere indicata internazionalmente come interlocuzione. Dunque, l’opposizione deve dimostrare di esistere.

Perché se si vuole che i finanziamenti illegali continuino a pervenire via Ned e Usaid, se si vuole insistere con la propaganda squallida travestita da informazione via CNN e Fox, se si vogliono incrementare le azioni di destabilizzazione terroristica via Miami e, si si pensa di voler aumentare la pressione militare tramite la IV Flotta e l’utilizzo dell’apparato militare colombiano, è necessario che il paese di Simon Bolivar appaia diviso in due, con un governo “nemico” ed una opposizione “amica”.

In assenza del primo, per gli Usa non ci sarebbe modo di giustificare l’ingerenza attiva, in assenza della seconda l’intervento apparirebbe solo un attacco esterno finalizzato alla propria volontà di dominio politico e saccheggio energetico, risultando per ciò immotivabile ed immotivato; comunque difficile da gestire politicamente, soprattutto a livello continentale.

Poi, come è ovvio, la Casa Bianca non nasconde i suoi interessi. Dover dipendere da Chavez per il 23% del suo consumo energetico non aiuta la serenità statunitense e, non a caso, il progetto al quale si lavora incessantemente negli ultimi anni, è quello di tornare a gestire le riserve energetiche di Messico, Venezuela, Ecuador e Bolivia a parziale garanzia di fronte all’instabilità del quadro mediorientale e del Golfo Persico. Perché questo accada, va fermato il processo politico indipendentista latinoamericano e, per questo, in primo luogo Chavez, che ne è soggetto centrale sotto il profilo economico e politico.

Ma entriamo nel merito tecnico della consultazione. Si vota per eleggere la nuova Asamblea Nacional (Parlamento). Sono 165 i seggi a disposizione, dei quali 110 vengono eletti nominalmente, 52 sono indicati direttamente dai partiti che partecipano al voto e 3 sono la rappresentanza indigena. Ognuno dei 24 Stati che compongono la nazione, sceglie la combinazione dei deputati eletti nominalmente, nominati dai partiti e, in quota parte, della rappresentanza indigena. Vincere le elezioni significa però avere una maggioranza di 110 deputati, dal momento che secondo Costituzione, le leggi di maggiore importanza devono essere votate dai due terzi del Parlamento

L’obiettivo non dichiarato degli oppositori è, appunto, quota 56. Proprio per il consenso parlamentare di cui il Presidente ha bisogno per governare, infatti, se l’opposizione riuscisse ad avere almeno 56 deputati si profilerebbe uno schieramento parlamentare che non potrebbe non incidere sul cammino di Chavez da ora fino alle presidenziali del 2012. Se l’opposizione raggiungesse quota 56, obbligherebbe infatti Miraflores a negoziare su tutto. Si darebbe luogo, in questi prossimi due anni, ad una presidenza “zoppa”, che vedrebbe retrocedere i progetti di ulteriore crescita sociale e di lotta alle disuguaglianze e che si rifletterebbe, inevitabilmente, in un robusto stop per il processo bolivariano.

I diversi sondaggi indicano incertezza se sono realizzati dagli istituti statunitensi, ma ciò che sembra possibile è un notevole grado di astensione. Analisti e inchieste convergono su un’affluenza al voto di 10 milioni di venezuelani sui 17 milioni aventi diritto. Difficile dire chi pagherebbe il prezzo più alto di questa assenza dal voto, ma non ci sono indicazioni di una possibile affermazione dell’opposizione.

Perché oltre che sull’idea di sovranità nazionale, sul piano politico lo scontro è davvero su due diverse priorità. L’opposizione rivendica libertà di stampa (senza dire che possiede la stragrande maggioranza di ciò che si pubblica, si vede e si ascolta nei diversi media: più di seicento radio e 40 emittenti televisive) pluralismo (ma sono diversi i partitini che la compongono) e sicurezza nelle strade (e qui, effettivamente, il problema c’è). Un programma disegnato su misura della media e grande borghesia venezuelana.

All’opposto, il governo parla di inclusione sociale e partecipazione popolare alla politica, di utilizzo dei proventi petroliferi per rafforzare il welfare, di programmi sociali  di crescita per i settori più poveri della popolazione. Progetti che, in qualche modo, sono stati realizzati in questi undici anni, dimostrando coerenza tra parole e fatti. A sostenerlo ci sono numeri numeri difficili da contestare: alimentazione e salute in primo luogo, garantita al 75% della popolazione; stroncato l’analfabetismo, istruzione superiore all’83 per cento della popolazione (dietro a Cuba ma davanti ad Argentina, Cile ed Uruguay) e quinta a livello mondiale, preceduta solo da Francia, Inghilterra, Spagna, Giappone e Cina. Mai, nella storia del venezuela, le classi disagiate hanno avuto sostegno economico, inclusione sociale e ruolo politico come con la presidenza di Hugo Chavez. 

Questo non elimina i ritardi e le inefficienze governative: inefficienza e corruzione della pubblica amministrazione, violenza e insicurezza per le strade, cattiva gestione delle risorse alimentari, non sono certo dettagli. Ma non è detto che, pure rilevanti, siano decisivi nel sostenere i sogni del MUD, che forte dell’appoggio delle gerarchie ecclesiali, delle Ong europee (olandesi e spagnole in particolare) e dell’apparato finanziario e mediatico statunitense, continuano in buona parte del paese ad apparire come un’ammucchiata rissosa e competitiva al suo interno.

Se queste elezioni si configureranno come l’ennesima vittoria elettorale del socialismo bolivariano o l’inizio della rimonta elettorale dell’opposizione, saranno i numeri a dirlo. Un successo dell’opposizione imporrebbe certamente al Presidente Chavez una virata significativa su alcuni aspetti legati al modo di governare le contraddizioni del paese. Ma una sua eventuale dodicesima vittoria elettorale in undici anni di bolivarismo, taciterebbe tutti. Anche i corvi che volano da Miami a Caracas sarebbero costretti, silenti, al volo di ritorno.

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