di Giuliano Luongo

Ormai non si contano più le magagne che, grazie agli sforzi di Assange e dello staff di Wikileaks, vengono a galla a cadenza settimanale. Nonostante l’argomento più gettonato riguardi sempre l’incompetenza radicata degli Stati Uniti a gestire qualsiasi conflitto in cui vadano usate armi più pericolose delle fionde, sono stati evidenziati dei dettagli interessanti su di un altro argomento: i rapporti tra Berlusconi e Putin in ambito approvvigionamento gas.

Il sito di Assange è riuscito a far focalizzare nuovamente l’attenzione di alcuni giornali sul fatto che il nostro governo avesse deliberatamente remato contro la strategia dell’Unione Europea per la diversificazione dei fornitori di energia, in favore di accordi diretti con la Russia: inutile dire che accanto agli accordi ufficiali c’è un abbondante sospetto di “spinte motivazionali” per gonfiare le tasche del nostro premier.

Ma prima di lanciarci in accuse di genere, o semplicemente in qualsiasi altra attività, è opportuno riassumere l’intero quadro energetico, onde ovviare alle migliaia di falle che l’informazione mainstream ha contribuito a produrre dai primi mesi del 2009 ai giorni nostri.

Anche ai più disinteressati è ben nota la situazione dell’approvvigionamento energetico non solo strettamente nostrana, ma dell’Europa occidentale tutta: per farla breve, anche per cause geologiche unite al continuo rifiuto del rinnovabile, siamo non solo grandi importatori di petrolio, ma anche di gas naturale. Il gas proviene essenzialmente da due rotte: quella nordafricana (buondì Gheddafi) e quella dell’Europa dell’est, con la Russia come “sorgente” e l’Ucraina come paese di transito.

Censuriamo il circo libico e per un attimo e concentriamoci su quello post-sovietico. Il transito nel territorio ucraino ha, di fatto, sempre posto i russi in una strana posizione nei confronti del governo di Kiev: una qualsiasi mancanza di questi ultimi - sia in fatto di pagamenti delle forniture dello stesso gas che per i più disparati motivi politici - portava Mosca a controbattere premendo semplicemente il tasto OFF sull’erogazione di metano.

Metodo di pressione fortissimo, ma controproducente: essendo l’Ucraina paese di transito, il gas non arrivava nemmeno più nelle amene case europee. Conseguenza: sedere congelato per noi, portafogli vuoto per Mosca. Fu così che alla Gazprom - il colosso nazionalizzato del gas russo - venne l’ideona di costruire un gasdotto alternativo, in grado di bypassare l’intero territorio ucraino e di portare la tanto agognata “aria fritta” direttamente in casa dei clienti, lasciando così la chance di lasciare al freddo l’eventuale partner economico fedifrago in maniera strettamente mirata. Il progetto si componeva - e si compone tutt’ora - di due rami, denominati Nord e South Stream.

Il primo avrebbe attraversato il Mare del Nord per arrivare in Germania (Kiel), mentre il secondo dovrebbe attraversare il Mar Nero per arrivare direttamente in Bulgaria, onde poi ramificarsi in Austria e, soprattutto, Italia. Mentre il progetto settentrionale trovò appoggio dal cancelliere tedesco Schroeder, quello meridionale si schiantò contro il “no” secco di Romano Prodi, a causa non solo del timore di ampliare ulteriormente l’egemonia energetica russa, ma anche a causa della presenza di una soluzione alternativa che andava nascendo proprio in casa europea.

Potrà stupire, ma è già dal 2002 (ben prima quindi delle due peggiori crisi energetiche russo-ucraine, datate 2005 e 2009) che Bruxelles ha in mente un progetto di approvvigionamento gas alternativo, il Nabucco. I capoccioni comunitari sfruttavano un’intesa nata dalle menti delle compagnie energetiche OMV (austriaca) e Botas (turca) assieme a partners bulgari ed ungheresi: costoro avevano studiato un percorso alternativo che andava a prendere il gas alla fonte, partendo dal Medio Oriente, per attraversare la Turchia arrivando infine a Vienna. Questo progetto “adottato” dalle UE non ebbe però il seguito sperato: nonostante si siano aggiunte una compagnia romena e una compagnia minore tedesca, il progetto è rimasto arenato per una serie di fattori non strettamente economici.

In primo luogo, la Germania ha dato un apporto inferiore a quanto auspicato, visto il suo maggiore interesse per le “offerte dirette” di Mosca e la scarsa fiducia nella cooperazione comunitaria (senza dimenticare che un grosso pacchetto del colosso crucco E-On è in mano ai russi). In secondo luogo, una serie di condizioni poste dalla Turchia - tra cui l’ipotesi di una pre-accessione alla comunità europea - hanno scoraggiato i potenziali partner più nazionalisti dal prendere parte a questa iniziativa. Tra questi la Germania, che già aveva i suoi motivi, la Francia (una delle tante scuse per promuovere il suo nucleare) ed infine l’Italia. E finalmente siamo arrivati a noi.

Una volta cestinato il governo Prodi, le ambizioni del cavaliere si sono allontanate sempre più da un’ipotetica convergenza con i piani europei. La prima decisione è stata quella di riaprire i contatti con la Gazprom per mettere in atto il South Stream. Inaspettatamente, in tema di costruzione gasdotti, l’Italia ha un vantaggio: la nostrana Saipem (controllata da Eni) è stata a lungo tempo monopolista nella tecnologia per la costruzione di condotte sottomarine di qualità, cosa che rendeva l’Italia un partner davvero appetibile nel settore. La nostra geniale strategia geoeconomica è consistita nel dare un metaforico calcio nel sedere al piano europeo - invitando anche i paesi già partecipanti ad uscirne - per dare spazio maggiore ad un colosso dal quale siamo già dipendenti.

Gli accordi firmati con Gazprom hanno permesso l’entrata dei russi nella proprietà di numerose compagnie italiane (in SeverEnergia al 51%, 49% in Promgas, 51% in Volta SpA) nelle quali prima era l’Eni a farla da padrona: pare manchi poco al regalo anche di parte della stessa Saipem, o almeno della sua preziosa tecnologia. Nota di costume: non si dimentichi che a fine ’09 anche una grossa compagnia francese sia entrata nell’orbita South Stream, dando un altro colpo alle mire europee. Il gasdotto russo, dai tempi di costruzione più lunghi del Nabucco, permetterebbe un afflusso maggiore di gas da riserve “sicure” garantite dagli affidabili e poco iracondi moscoviti.

Bene. Mentre si cercava di mantenere alte le speranze del Nabucco con la mediazione USA e gli investimenti della BIRS lungo l’estate ’09, l’Italia ha corso per chiudere definitivamente i propri accordi con Gazprom, come in una vera competizione. Colpisce il quasi totale silenzio della stampa in quel periodo: solo i giornali più vicini al premier davano un minimo spazio alla notizia, dipingendola ovviamente come un grande successo della nostra “diplomazia”.

Se è diplomazia svendere le proprie aziende in favore di una strategia che disintegra gli sforzi congiunti europei per l’indipendenza energetica, siamo davvero a cavallo. Meglio: siamo a pecora. Come ciliegina sulla torta, di recente Wikileaks ha ventilato l’ipotesi di una sorta di “guadagno al metro” sul gas per Silvio, come regalo di Putin per aver avuto un’altra chance per allungare il controllo russo sull’energia europea.

Di certo questa possibilità lancia interessanti speculazioni sul futuro, ma per ora non rimane che assistere all’evolversi della situazione. Ah già, a proposito, assieme al gas Putin ci ha anche rifilato centrali nucleare di vecchia generazione che funzionano solo con carburante russo. Ma di questo altro gran successo magari ne parliamo un’altra volta.

 

 

 

 

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