di Carlo Benedetti

MOSCA. Ha 47anni. Si chiama Michail Borisovic Chodorkovskij. E’ uno dei massimi oligarchi della nuova Russia. Opera nel campo dell’industria petrolifera ed è stato alla testa di quella compagnia-piovra chiamata “Yukos”. Ed è appunto al vertice di questa impresa che ha operato come un monarca accumulando ricchezze incredibili ricorrendo a impressionanti evasioni fiscali. Tutto nel segno d’intrighi politici e diplomatici.

E’ così divenuto il simbolo di una Russia arrogante, mafiosa, basata sulle tangenti e sull’uso politico dell’economia. Di qui - favorito dalla sua origine ebraica e di conseguenza appoggiato dalle potenti lobby israeliane presenti nel paese - ha dato il via a una campagna di attacchi nei confronti del Cremlino. E ha individuato in Putin - altro oligarca allevato però nel settore della nomenklatura poliziesca - il vero nemico.

E’ cominciata così la lotta tra i due. Con Chodorkovskij che ha sempre apertamente affermato di voler arrivare alla poltrona presidenziale. Un concorrente forte non solo economicamente, ma anche appoggiato da lobby internazionali, negli Usa e in Israele. Tutto ok sino al 25 ottobre del 2003, quando per lui scattano le manette. Perché la sua compagnia Yukos (ai primi posti nel mondo per produzione ed esportazione) finisce nel mirino degli organi statali di controllo che scoprono un giro di evasioni per gli anni dal 2001 al 2003. E l’oligarca, mentre si dispiega una guerra di posizioni, finisce nel carcere di Chita, in Siberia.

Comincia il processo. A difendere l’oligarca corrono tutti gli uomini della lobby israeliana, che puntano a presentare il giudizio come una vera resa dei conti messa in atto da Putin contro un eventuale concorrente. Processo politico, quindi, con le tangenti e le evasioni che passano in secondo piano. Accanto a Khodorkovski (in galera insieme al suo partner Platon Leonidovi? Lebedev) arriva l’avvocato Vadim Kljuvgand, il quale concentra la difesa accentuando il fattore politico dell’intero processo. La procura ha chiesto 14 anni di carcere e, puntuale, è arivata la condanna per sottrazione di petrolio e riciclaggio.

Ma le acque dell’intera vicenda sono più che mai torbide. Nella scena generale c’è anche il recente licenziamento del tanto chiacchierato sindaco di Mosca, Jurij Luskov. E nella capitale non a caso ci si chiede cosa abbia accelerato i tempi della sua cacciata...

Forse la causa - anche in questo caso - è la corruzione, oggetto ufficiale delle crociate di Medvedev. Che evidenziano in primo luogo come la famiglia di Lužkov, attraverso la compagnia di costruzioni della moglie, l'Inteko, abbia beneficiato grandemente della sua carica. E così in questo momento due sono le questioni che battono alle porte del Cremlino. Per Putin c’è la resa dei conti con Khodorkovski e per Medvedev il contenzioso con l’eredità mafiosa di Luzkov e compagni vari.

E siamo alle nuvole di tempesta dell’oggi, con il processo d’appello sul caso Khodorkovski nelle aule del tribunale di Chamovniceskij - sempre a Mosca - con il giudice Viktor Danilkin. I due oligarchi vengono ancora una volta condannati pur se cadono alcuni capi d’accusa.

Il caso, quindi, continua e per il premier russo c’è sempre la cappa di questa arma letale che si chiama Khodorkovski. Perchè attorno all’oligarca (che è, ripetiamo, una delle figure più odiose e corrotte del firmamento russo attuale) si vanno raccogliendo lobby mafiose ed ebraiche che hanno una notevole influenza nella vita politica ed economica della Russia. Tanto è vero che nei picchetti in difesa dell’oligarca condannato figurano cartelli di questo tipo: “Cambio Putin per Khodorkovski”.

E’ anche questa la prova che si è nel pieno di un processo politico dove Putin individua l’arma letale che molti vorrebbero far esplodere sul suo cammino. Ecco perché il premier nei giorni scorsi, con una battuta da caserma (com’è nel suo stile poliziesco) ha affermato che “i ladri devono stare in galera”. E il Tribunale, rispettoso della legge, ha fornito subito una sentenza adeguata al diktat.

Eppure, uscendo dal Tribunale, la società russa di questi giorni si trova a dover affrontare domande di questo genere: siamo già all’inizio della fine del regime putiniano? Come mai oggi Medvedev decide di andare allo scontro con Putin? Le prossime elezioni registreranno una lotta all’interno del Cremlino? La Russia è pronta a mutamenti radicali? L’elite russa sarà incorporata nel tessuto della società occidentali?

Le risposte che vengono avanti sono molte e spesso di diverso orientamento. Una cosa sembra però chiara: in Russia si è di fronte ad una classe dirigente carica di paradossi con un ceto tutt’altro che compatto e uniforme. Con Medvedev che si presenta come leader di una possibile modernizzazione, facendo nascere una nuova speranza di “disgelo”. Con Putin che si presenta invece come un castigatore, duro, tutto teso a difendere le strutture del Cremlino.

Ed ecco che c’è anche chi sostiene che questo tandem Putin-Medvedev (un conservatore e un riformatore moderato) potrebbe anche essere un vero gioco delle parti: una sorta di forma efficace per la conservazione del potere e del conseguente prolungamento della vita di una gestione personalistica e pluralistica. I teorici del Cremlino, non a caso, ricordano i pericoli di quella “sindrome gorbacioviana”, cioè la perdita del monopolio del potere. E così, nonostante la stanchezza nei confronti di Putin, evidentemente c’è chi preferisce il noto all'ignoto.

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