di Michele Paris

Nonostante gli onori della visita di stato riservati al presidente cinese Hu Jintao e le amichevoli dichiarazioni di circostanza, il summit di Washington tra i vertici delle due principali potenze economiche del pianeta poco o nulla ha fatto per risolvere le tensioni e i nodi irrisolti nei loro rapporti. E non poteva essere diversamente, viste le provocazioni americane degli ultimi mesi nei confronti di Pechino e i crescenti conflitti tra i rispettivi interessi che stanno accompagnando l’inesorabile avanzata dell’influenza cinese su scala planetaria e il conseguente declino degli Stati Uniti.

A fissare gli argomenti dell’ottavo faccia a faccia in due anni tra il presidente americano e Hu Jintao erano state, nei giorni precedenti, una serie di dichiarazioni minacciose da parte dei tre più influenti membri dell’amministrazione Obama. Nel suo tour in estremo oriente il numero uno del Pentagono, Robert Gates, poco prima di visitare proprio il leader cinese aveva avvertito come gli USA siano intenzionati a contrastare il rafforzamento militare di Pechino nell’Oceano Pacifico incrementando a loro volta gli investimenti in questo ambito.

Alla questioni del confronto militare e del sovrapporsi delle sfere di influenza nel Pacifico hanno fatto seguito poi quelle legate all’economia e ai diritti umani. Il Segretario al Tesoro, Tim Geithner, ha così ribadito il ritornello della necessità del rafforzamento della moneta cinese, il renminbi, per favorire le esportazioni americane, mentre dal Dipartimento di Stato, Hillary Clinton ha criticato apertamente la Cina per il trattamento del dissidente e recente premio Nobel per la Pace - nonché fermo sostenitore di una totale apertura al libero mercato del proprio paese - Liu Xiaobo.

Su questi e altri temi simili è quindi consistito l’incontro che il consigliere per la sicurezza nazionale dell’ex Presidente Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, ha definito come il più importante per le due potenze dal 1978, quando Deng Xiaoping fece visita proprio all’allora presidente democratico. Se le aspettative erano molte, i risultati sono stati però decisamente modesti. Le richieste di Obama ad un Hu Jintao che si appresta entro poco più di un anno a passare il testimone all’interno del Partito Comunista Cinese, pare abbiano strappato almeno qualche promessa, almeno a parole, sul fronte del rispetto della proprietà intellettuale dei prodotti tecnologici e dell’apertura del mercato cinese alle aziende americane.

Nel consueto clima cordiale della conferenza stampa che mercoledì ha seguito l’incontro ufficiale tra i due presidenti, tuttavia, si sono intravisti alcuni dei punti di scontro che rimangono difficilmente superabili. Tra di essi spiccano la contesa attorno alla Corea del Nord e al riassestamento degli equilibri di potere in Asia orientale, il nucleare iraniano, il Tibet, i rapporti con Taiwan e le già accennate questioni riguardanti il commercio e l’economia che interessano soprattutto le corporation americane.

Se la stampa istituzionale d’oltreoceano in questi giorni ha ripetutamente insistito nel dipingere la Cina come un crescente pericolo, per gli USA e per l’intero occidente “democratico”, a causa del suo comportamento teso a destabilizzare l’ordine mondiale, è in realtà da Washington che sono giunte le provocazioni che in questi mesi hanno inasprito le divergenze tra i due paesi.

Ad esempio, l’aggressività dell’amministrazione democratica in estremo oriente si è manifestata esemplarmente nel conflitto sfiorato con la Corea del Nord. L’affondamento di una nave da guerra sud-coreana nel marzo 2010 e il più recente bombardamento da parte di Pyongyang di un’isola appartenente al vicino meridionale sono stati sfruttati senza scrupoli dagli Stati Uniti.

Le ostilità tra le due Coree hanno rischiato di trasformarsi in guerra aperta dopo che Washington ha condotto una serie di provocatorie esercitazioni militari in acque contese. Allo stesso modo questi stessi episodi hanno spinto gli Stati Uniti a promuovere una storica collaborazione militare tra la Corea del Sud e il Giappone. Il tutto con l’intenzione di accerchiare la Cina e cercare di limitarne la sfera d’influenza in un’area ovviamente vitale per i suoi interessi strategici.

Parallelamente, l’ipocrisia americana è apparsa evidente anche nell’insistente campagna orchestrata sui media occidentali per spingere Pechino a far lievitare il valore della propria moneta. Secondo il Tesoro USA le pratiche manipolative della Cina terrebbero artificialmente basso il cambio del renminbi, dando al suo export un vantaggio sleale. La pretesa degli Stati Uniti tuttavia tralascia di ricordare come la politica della Fed dopo la crisi del 2008 sia stata indirizzata precisamente alla svalutazione del dollaro, come confermano le più o meno sommesse critiche lanciate da quegli alleati-competitori le cui economie si basano sulle esportazioni, come Germania e Giappone.

Anche gli stessi richiami a un’apertura democratica e al rispetto dei diritti umani suonano vuoti. A molti in occidente, tra cui i giornalisti americani che alla Casa Bianca hanno incalzato Hu Jintao sulla continua repressione dei diritti civili in Cina, sfugge infatti come questa amministrazione sia responsabile di comportamenti anti-democratici, per non dire criminali, come l’uccisione di centinaia di civili innocenti in Afghanistan, Pakistan e Yemen, la detenzione indefinita di presunti terroristi senza prove né processo, l’approvazione di metodi di tortura negli interrogatori e delle cosiddette “extraordinary renditions” o l’espansione di programmi domestici di sorveglianza destinati al controllo dei cittadini e delle loro attività.

I frutti maggiori nelle relazioni sino-americane si sono visti piuttosto nell’ambito degli affari. Per quanti timori gli Stati Uniti possano nutrire nei confronti del gigante asiatico, quest’ultimo rappresenta pur sempre un mercato potenzialmente enorme per le aziende americane. Tanto più che la bilancia commerciale risulta ancora sbilanciata a favore della Cina per un totale annuo di qualcosa come 275 miliardi di dollari.

Prima di recarsi a Chicago per incontrare una delegazione di imprenditori cinesi attivi in territorio americano, Hu Jintao e il suo seguito hanno siglato contratti di fornitura per il valore di 45 miliardi di dollari. A beneficiarne saranno colossi come Caterpillar, Honeywell, Westinghouse Electric e, soprattutto, Boeing, la quale grazie alla mediazione dell’amministrazione Obama ha ottenuto una commessa di 19 miliardi per la realizzazione di duecento velivoli da consegnare alla Cina tra il 2011 e il 2013.

Sul fronte dei rapporti diplomatici, in definitiva, i sia pure modesti progressi proclamati da quasi tutti i giornali americani sono stati pressoché inesistenti. Nel prossimo futuro, anzi, la tensione rischia di aumentare ulteriormente, come dimostra il provvedimento presentato da alcuni senatori democratici e repubblicani in occasione della visita di Hu Jintao e che prevede tariffe doganali punitive per quei paesi accusati di manipolare la propria valuta.

Con una Cina ben decisa a proseguire un percorso di crescita impetuoso, che l’ha già proiettata al secondo posto tra le potenze economiche del pianeta, pronta a giocare un ruolo di primo piano nelle questioni internazionali, e un’America determinata all’impiego della propria superiorità militare per difendere uno status declinante nello scacchiere mondiale, un’ulteriore escalation della rivalità tra Washington e Pechino è tutt’altro che da escludere. E a frenarla, di certo, non saranno i pur buoni rapporti personali che Obama e Hu Jintao hanno mostrato di aver stabilito in questi due anni.

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