di Michele Paris

Il potente ex presidente iraniano, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, è stato di fatto rimosso questa settimana dalla guida dell’Assemblea degli Esperti, l’influente organo incaricato di eleggere, sorvegliare ed eventualmente deporre la Guida Suprema della Repubblica Islamica. La parabola discendente di uno degli uomini più ricchi dell’Iran giunge in un momento molto delicato per tutto il Medio Oriente: s’intreccia inestricabilmente - da un lato - con le lotte di potere tra le varie fazioni del regime e - dall’altro - con le sorti di un movimento di protesta che fatica a raccogliere un seguito consistente nel paese.

Presidente per due mandati tra il 1989 e il 1997 e considerato un conservatore moderato e pragmatico, Rafsanjani negli ultimi due anni ha rappresentato all’interno del regime una delle voci più vicine al cosiddetto Movimento Verde. La sconfitta elettorale che egli stesso aveva dovuto incassare nel ballottaggio delle presidenziali del 2005 dall’allora sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, lo aveva progressivamente allontanato dai sostenitori dell’attuale presidente, fino a spingerlo verso l’opposizione, pur senza condividerne le posizioni anti-regime più estreme.

Nella sua funzione di numero uno sia dell’Assemblea degli Esperti che del Consiglio per il Discernimento - preposto alla risoluzione dei conflitti tra il Parlamento (Majlis) e il Consiglio dei Guardiani della Costituzione - Rafsanjani, dopo le contestate elezioni del giugno 2009, aveva più volte cercato di promuovere una riconciliazione tra l’opposizione Verde e il regime. Le sue manovre erano mirate a mettere all’angolo lo stesso presidente, facendo leva sulle riserve nutrite da molti conservatori nei confronti della politica populista di Ahmadinejad.

Gli esponenti della linea dura vicini ad Ahmadinejad hanno a loro volta progressivamente intensificato gli attacchi contro Rafsanjani, in modo da privarlo di quell’influenza che ancora poteva conservare in alcuni ambienti della Repubblica Islamica. L’appuntamento con l’elezione del nuovo presidente dell’Assemblea degli Esperti ha fornito così l’occasione per mettere da parte un peso massimo del regime considerato, sia pure per ragioni opportunistiche, fin troppo allineato con i “riformisti”. Un passaggio di consegne, va sottolineato, che avviene in un momento molto importante, se le voci che da qualche mese si rincorrono sulle precarie condizioni di salute dell’ayatollah Ali Khamenei dovessero risultare fondate.

Tra la fazione pro-Ahmadinejad (strettamente legata ai Guardiani della Rivoluzione e uscita rafforzata dal cambio al vertice dell’Assemblea) e il clero sciita rimangono tuttavia profonde divisioni. Il presidente e i suoi uomini, infatti, non sono stati in grado d’imporre un loro fedelissimo, ma hanno dovuto accettare, come successore di Rafsanjani, l’ottantenne conservatore Mohammad Reza Mahdavi Kani, già primo ministro negli anni Ottanta e seguace della prima ora dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Quando la candidatura di Mahdavi Kani è emersa, Rafsanjani ha ritirato la propria e il nuovo leader dell’Assemblea degli Esperti ha così raccolto il consenso di 63 degli 86 membri che la compongono.

La posizione sempre più precaria di Rafsanjani era apparsa in tutta la sua evidenza un paio di settimane fa quando, relativamente a sorpresa, aveva denunciato le manifestazioni che qualche giorno prima erano andate in scena nelle strade di Teheran sull’onda delle rivolte in Tunisia ed Egitto. Facendo proprie le parole degli esponenti più intransigenti del regime, Rafsanjani aveva definito i manifestanti “estremisti” che minacciano l’unità tra il popolo e il regime stesso. Una metamorfosi significativa - verosimilmente dettata da motivi di sopravvivenza politica - per un uomo che meno di due anni fa aveva fornito il suo appoggio, e quello della potente famiglia, all’opposizione di Mousavi e Karroubi.

Il declino di Rafsanjani nel panorama politico della Repubblica Islamica è in qualche modo legato alle stesse fortune del Movimento Verde, i cui leader condividono le medesime preoccupazioni della media e alta borghesia iraniana incarnata dal multimiliardario ex presidente. Il tentativo di rilancio del movimento di protesta contro il regime dopo lunghi mesi di silenzio non ha finora sortito successi significativi. Mentre Mousavi e Karroubi finivano agli arresti domiciliari - o addirittura in carcere, secondo quanto sostengono le rispettive famiglie - le manifestazioni indette nelle ultime settimane (il 14 e il 20 febbraio, e ancora il 1° marzo) sono state agevolmente represse dalle forze di sicurezza del regime.

Il sostanziale fallimento del Movimento Verde nel reclutare un numero significativo di manifestanti, malgrado la copertura costantemente positiva assicurata dai media occidentali, è da collegare all’incapacità di mobilitare i lavoratori iraniani e gli strati più poveri della popolazione urbana, come era accaduto invece nelle rivoluzioni di Tunisia ed Egitto. Un’inadeguatezza quella dei “riformisti”, guidati peraltro da veterani del regime messi da parte da molti anni, che è la conseguenza stessa della composizione sociale di un movimento nel quale a prevalere è la classe media privilegiata che lamenta la mancanza di una rapida apertura del paese al capitale internazionale e di un riavvicinamento agli Stati Uniti e all’Occidente.

I limiti del movimento anti-regime, così come lo si è conosciuto in questi due anni, appaiono ancora più gravi alla luce del malcontento che pure sembra ampiamente diffuso in buona parte della popolazione iraniana. Se l’ascesa al potere di Ahmadinejad nel 2005 era stata possibile soprattutto grazie alla promessa di porre rimedio alle disuguaglianze sociali prodotte dalle politiche neoliberiste dei predecessori più graditi all’Occidente - Rafsanjani e soprattutto Mohammad Khatami - l’illusione è stata infatti di breve durata.

Mentre all’inizio del suo primo mandato, Ahmadinejad ha incrementato la spesa sociale, più recentemente ha finito per accelerare le riforme di mercato, fino alla battaglia per l’abolizione degli ingenti sussidi ai beni di prima necessità, come pane, benzina e gasolio per riscaldamento, che finirà per penalizzare pesantemente proprio i redditi più bassi. Di fronte alle resistenze di una working-class preoccupata per l’impennata improvvisa dei prezzi e il conseguente impoverimento, il Movimento Verde ha sostanzialmente criticato il governo per non essersi mosso con sufficiente rapidità nell’eliminazione dei sussidi stessi e per aver sprecato preziose risorse economiche in “inutili” spese sociali.

D’altro canto, la relativa vittoria nella successione alla guida dell’Assemblea degli Esperti rafforza Ahmadinejad anche sul fronte della faida interna al regime con i conservatori religiosi, rappresentati dallo speaker del Parlamento Ali Larijani e dal fratello Sadeq, al vertice del sistema giudiziario iraniano. Sotto la spinta dei fratelli Larijani, il governo Ahmadinejad negli ultimi anni ha dovuto fronteggiare parecchi ostacoli, sia sul fronte parlamentare che su quello giudiziario, mentre entrambi avevano valutato una possibile contestazione dei risultati delle presidenziali del 2009, prima di desistere di fronte al sostegno fornito al vincitore da parte dello stesso Ayatollah Khamenei.

Nonostante le divisioni interne agli ambienti di potere della Repubblica Islamica, dunque, praticamente tutte le fazioni del regime e gli stessi “riformisti” approvati dalla stampa e dai governi occidentali condividono quelle stesse politiche economiche e sociali che hanno determinato l’esplosione delle rivolte in Medio Oriente e in Africa Settentrionale. Per questo motivo, la riuscita di una vera rivolta anche in Iran dipenderà dalla creazione di un movimento indipendente che faccia proprie le rivendicazioni di giustizia sociale e democrazia che stanno emergendo nel vicino mondo arabo.

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