di Eugenio Roscini Vitali 

E’ il gennaio 2006 quando ha inizio la guerra civile palestinese, un conflitto che vede di fronte Fatah ed Hamas e che in quasi 18 mesi fa più di 600 vittime: mercoledì 4 maggio, a 5 anni da quei tragici fatti, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, e il leader politico di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya (Hamas), Khaled Meshal, s’incontreranno al Cairo per sottoscrivere l’accordo di riconciliazione mediato dall’Egitto.

L’intesa prevede la formazione di un governo tecnico di unità nazionale, l’istituzione di un organismo congiunto in materia di sicurezza e la creazione di una commissione che avrà il compito di organizzare e monitorare tutte le attività collegate alle elezioni parlamentari e presidenziali che dovrebbero tenersi entro otto mesi.

E’ chiaro però che non tutti sono favorevoli al ritrovato dinamismo politico palestinese e c’è chi guarda al  nuovo corso come ad un ostacolo al già agonizzante processo di pace mediorientale, un’occasione per ricordare che Hamas è ancora considerato un  pericoloso gruppo terroristico e come tale non può diventare uno dei futuri interlocutori di Israele.

L’annuncio fatto nei giorni scorsi dal portavoce di Fatah ha subito scatenato le prime reazioni: il ministro israeliano delle Finanze, Yuval Steinitz, ha reso noto che Tel Aviv sospenderà il versamento dei fondi alle casse dell’Anp, 50 milioni di euro al mese di tasse e dazi doganali raccolti per conto del governo palestinese. Stesso tono da parte del direttore politico del dipartimento di Stato USA, Jacob Sullivan, che alla stampa ha ricordato come l’amministrazione americana sia pronta a rivedere la sua politica di aiuti verso Ramallah: «Il nostro attuale sostegno all'Autorità palestinese rappresenta un forte contributo alla costruzione delle istituzioni palestinesi necessarie a un futuro Stato, ma se dovesse nascere un nuovo governo dovremo valutare i suoi principi politici e decidere quali saranno le conseguenze sul nostro aiuto, definito dalla legge americana».

Washington è pronta a sostenere la riconciliazione palestinese a patto che gli accordi del Cairo incoraggino comunque la pace e che il nuovo governo di unità nazionale s’impegni a rispettare le condizioni imposte dal Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu): fine delle violenze, riconoscimento dei trattati firmati in passato da Israele e dai rappresentanti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e riconoscimento del diritto allo Stato ebraico di esistere.

Pur non dichiarandosi disposto a dare al governo unitario palestinese il mandato per portare avanti i negoziati con Israele, Hamas sembra comunque pronto a collaborare. Il Movimento di resistenza islamico ha infatti garantito di non imporre a Fatah l’abbandono del processo di pace e, per favorire l’accordo di riconciliazione, il primo ministro in carica nella Striscia di Gaza, Ismail Haniyeh, ha confermato la propria disponibilità a rassegnare le dimissioni: «Questo accordo è molto importante e dobbiamo moltiplicare gli sforzi per porre fine alle divisioni ed incoraggiare l’unità del popolo palestinese».

Chi più di ogni altro è rimasto spiazzato da questo nuovo corso della storia politica palestinese è senza dubbio il governo israeliano, che ora si trova a dover ridefinire la propria posizione e lo deve fare prima del 24 maggio, prima cioè che primo ministro, Benyamin Netanyahu, si rechi a Washington per parlare di fronte alle Camere riunite. Tra i banchi della Knesset il fronte degli intransigenti é sempre ampio e molti membri dell’Esecutivo hanno già fatto appello affinché i principali paesi della comunità internazionale boicottino l’accordo di riconciliazione tra Fatah ed Hamas.

Ma non tutta l’opinione pubblica israeliana è concorde; in un editoriale pubblicato dal quotidiano Haaretz, lo scrittore Gideon Levy denuncia una posizione di diritto che non da nessuna risposta al problema israelo-palestinese e chiede che al Movimento di resistenza islamico sia data una chance: “Non c’è ancora una riconciliazione, ma in Israele il pianto degli oppositori si è già fatto sentire; il contenuto è sempre lo stesso, parola per parola, come negli anni  ’70 e ’80, un’organizzazione terroristica con la quale non si potrà mai negoziare”.

Appoggiato dal suo Gabinetto, Netanyahu ha liquidato l’argomento, affermando che con i terroristi non si tratta: «Fatah scelga, la pace con Israele o la pace con Hamas»; ancora più drastico è il giudizio del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che alla stampa ha parlato di “linea rossa varcata” e di inevitabili conseguenze. Il leader del partito ultranazionalista Israel Beitenu è certo che pur guidato da Abu Mazen, un governo di unità nazionale porterà alla liberazione dei rispettivi prigionieri, terroristi attivi che invaderanno la Cisgiordania e che metteranno in pericola la sicurezza dello Stato ebraico.

Lieberman è convinto che le due organizzazioni sentono la pressione delle rivolte mediorientali e che l’accordo non è altro se non una via d’uscita per recupera il terreno politico perso in Siria, dove Hamas rischia di veder sfumare l’appoggio del presidente Bashar al Assad, sempre più vicino ad una resa dei conti ormai inevitabile, e in Egitto, dove Fatah paga gli effetti della “rivoluzione del 25 gennaio” che ha portato alla caduta di Hosni Mubarak e ha rilanciato i Fratelli Musulmani, la potente organizzazione pan-islamica ideologicamente molto più vicini a Gaza che a Ramallah.

 

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