di Mario Braconi

Con due mesi di ritardo rispetto alla data per la quale era atteso, lo scorso 2 settembre il report delle Nazioni Unite sul caso della Freedom Flotilla viene anticipato al New York Times, che lo pubblica integralmente. Le conclusioni del panel, presieduto dall’ex Primo Ministro neozelandese Palmer, dall’ex presidente colombiano Uribe, da un rappresentante israeliano e da uno turco, sono molto più salomoniche di quanto il governo turco sia disposto a tollerare.

Secondo i quattro membri della commissione, Israele ha agito legittimamente stabilendo il blocco navale sulle acque al largo di Gaza, considerate le minacce alla sua sicurezza rappresentate dal sistematico lancio di razzi sui suoi centri abitati da parte di Hamas. D’altra parte, l’uso della forza da parte dell’esercito israeliano in quella circostanza, in particolare l’assurda decisione di abbordare la Mavi Marmara, è stato “eccessivo ed irragionevole”.

A questo proposito, i referti autoptici acquisiti dalla commissione evidenziano come la ricostruzione dei fatti da parte di Israele, che continua a battere sul tasto della legittima difesa, sia palesemente falsa: risulta infatti che su Furkan Dogan, una delle vittime, sono state rilevate ferite al volto, sulla nuca, sulla schiena e sulla gamba sinistra. Elementi a sostegno della tesi secondo cui il colpo mortale lo abbia raggiunto quando si trovava già a terra, ferito. Se non si è trattato di esecuzione, poco ci è mancato.

Il ritardo nella pubblicazione dell’abrasivo documento, originariamente attesa per il 2 luglio, è stato causato da un tentativo di negoziazione andato per le lunghe e poi saltato. Secondo fonti turche, citate questa mattina da Haaretz, la velocità e la veemenza con cui sta reagendo il governo turco sarebbe motivata dal sospetto che siano stati proprio gli israeliani a anticipare alla stampa americana il report delle Nazioni Unite: “Avremmo potuto continuare a discutere dei problemi relativi alla formulazione del testo, e perfino trovare un accordo, ma la soffiata di Israele alla stampa ha gettato i nostri accordi alle ortiche”, sostiene una fonte turca.

Secondo la ricostruzione del New York Times, alla richiesta israeliana di non pubblicare il report, i turchi avrebbero opposto, come contropartita, il risarcimento ai parenti delle vittime e una dichiarazione ufficiale di scuse da parte di Israele. Lo stesso Palmer report raccomanda che Israele esprima “rammarico” per aver provocato nove morti, anche se non vere e proprie scuse.

Ed è proprio qui che le trattative si sono arenate. La destra nazionalista israeliana, così ben rappresentata dal primo ministro Netanyahu e dal titolare degli esteri Liebermann, è del tutto contraria alle scuse. Non che esse sarebbero sufficienti per riportare il sereno tra i due Paesi, vista l’insistenza con cui il premier turco Erdogan, continua a chiedere la fine al blocco navale israeliano su Gaza. L’atteggiamento del governo israeliano è ben riassunto dalle dichiarazioni rese stamattina dal ministro dei trasporti israeliano Israel Katz alla radio: “Israele difende i suoi interessi e non chiederà scusa”.

La crisi dei rapporti tra Turchia ed Israele non poteva cadere in un momento meno opportuno: come confermano le agenzie, il premier turco Recep Tayyip Erdogan sta organizzando una visita ufficiale in Egitto, Tunisia e Libia. Il 12 settembre Erdogan dovrebbe recarsi in Egitto, accompagnato dai suoi ministri degli Esteri e dell’Economia e da un gruppo di imprenditori. Ed è proprio questo il passaggio chiave: Erdogan attraverserà il confine egiziano per visitare la striscia di Gaza, dove comanda Hamas, nemico giurato di Israele? Benché il diretto interessato anche ieri si sia premurato di escludere questa possibilità, un eventuale cambio di programma assesterebbe un altro gravissimo colpo alle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Israele.

In ogni caso, come riporta oggi Haaretz, lo stesso Erdogan ha fatto sapere che i rapporti tra i due Paesi non devono essere ostaggio di una eventuale questione personale tra i due premier: quello che è in gioco è l’interesse nazionale della Turchia; che appare ormai pronta ad usare il pretesto (legittimo e ben supportato) della Freedom Flotilla per estendere la sua influenza sull’Egitto post-Mubarak.

Resta inspiegabile la politica autolesionista di Israele. Sembra proprio che il paese, sotto la guida tattica ed invelenita dei suoi governanti, stia facendo di tutto per inimicarsi i pochissimi paesi a maggioranza musulmana con cui era riuscita a costruire relazioni costruttive. Quella della Turchia (verso cui Israele ha esportato beni e servizi per oltre 600 milioni di euro solo nel primo semestre 2011) è una bella grana.

Ma potrebbe rappresentare un problema serissimo per lo Stato ebraico: se anche Giordania ed Egitto dovessero seguire l’esempio della Turchia, si aprirebbe una fase particolarmente difficile per Israele, ormai vittima della coazione all’autoisolamento messa in atto dagli irresponsabili e sprovveduti politici che lo governano.

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