di Mario Braconi 

In queste ore rappresentanti del Quartetto (Nazioni Unite, Stati Uniti, Russia ed Unione Europea) si sta esercitando in una prima tornata di incontri indiretti con Israeliani e Palestinesi. Secondo Tony Blair, discusso inviato speciale del Quartetto, non si tratta nemmeno di “proximity talks”, ovvero di negoziati condotti bilateralmente per il tramite di un mediatore, quanto piuttosto di un banco di prova per sondare le differenze tra le proposte dei due contendenti e verificare se esista o meno lo spazio di agibilità politica per colmarlo.

L’obiettivo degli incontri di ieri, come spiegato da Blair al Los Angeles Times in un’intervista pubblicata l’altro ieri notte, è di trovare un accordo che preveda la stesura di un piano condiviso su confini e sicurezza da rendere operativo entro i prossimi tre mesi. “Una volta studiata la proposta sui confini, vedremo quanto sono distanti le posizioni”. Peccato però che i palestinesi, già dai tempi dei negoziati di Annapolis (2008), abbiano fatto una loro proposta sui confini e su eventuali scambi di terre con gli israeliani; mentre ad oggi non sembra sia ancora pervenuta la controfferta di questi ultimi.

La notizia del coinvolgimento di mediatori esterni e la possibilità che si apra una nuova stagione di negoziati è positiva, anche considerando che a mettere in moto questo processo è stata la “corsa” di Abbas alle Nazioni Unite per ottenere il riconoscimento della Palestina come stato membro, o - nella peggiore delle ipotesi - come osservatore (come il Vaticano). Tuttavia, sul buon esito del processo pesa inevitabilmente l’ipoteca costituita dalla liberazione di Gilad Shalit, che ha fortemente indebolito Al-Fatah a vantaggio di Hamas.

Nell’intervista di ieri Edmund Sanders, caporedattore da Gerusalemme, ha messo sotto torchio Blair, sottoponendolo ad un fuoco di fila di domande, alcune delle quali allusive e una decisamente imbarazzante. Le impressioni ricavate a caldo dalla viva voce dell’inviato speciale del Quartetto non sono molto confortanti. Sanders provoca Blair sulla mancanza d’incisività del Quartetto: “Chiedete agli israeliani di bloccare gli insediamenti e si continua a costruire; pregate i palestinesi di riprendere la trattativa e loro non ne vogliono sapere; come mai la credibilità del Quartetto è così bassa?”.

La risposta diplomatica di Blair conferma l’alta opinione che di sé hanno i rappresentanti del quartetto, evidentemente convinti che la via della pace passi necessariamente attraverso il loro intervento: “Non esiste alcuna altra entità che consenta al processo di essere gestito in modo intelligente dagli attori chiave”. Una delle ragioni della sua impotenza, per inciso, è il fatto che, come ammette lo stesso Blair, il Quartetto può “fare pressione, tentare di convincere, perfino allettare le parti in causa”; ma di sicuro non ha alcuna possibilità di sanzionarli se non si attengono a quanto richiesto.

Se è vero che il Quartetto rappresenta l’unica speranza di salvezza i due popoli, c’è poco da stare allegri. Qui Sanders ha gioco facile, ricordando a Tony Blair come i quattro componenti si siano scannati per mesi tra loro nel vano tentativo di mettere a fuoco una posizione comune sui punti chiave, “confini”, “rifugiati”, “capitale a Gerusalemme Est” e “Israele come Stato Ebraico”. Come fa il Quartetto a catalizzare i negoziati di pace se non riesce nemmeno a mettere a punto una posizione comune proprio sui temi su cui si propone come intermediario esclusivo? Francamente, è di poco conforto apprendere da Blair che “a settembre a New York si è stati vicini a un accordo sui parametri, ma non è stato possibile comporre alcune divergenze”.

Sanders, infine, solleva il tema dell’adeguatezza della figura di Tony Blair quale inviato speciale del Quartetto. Se non bastasse il grave deterioramento della sua immagine, inevitabilmente legata alla guerra in Iraq, ci sono ragioni di buon senso che gli consiglierebbero di fare un passo indietro. In particolare il suo ruolo di consulente della banca d’affari JP Morgan, che tende a sovrapporsi pesantemente agli obblighi derivanti dal suo impegno di “uomo di pace” in Medio Oriente. Il giornalista del LA Times fa esplicitamente riferimento al ruolo presumibilmente avuto da Blair nel favorire Wataniya, una società di telefonia mobile di proprietà di società del Qatar e del Kuwait, e la British Gas.

Il caso Wataniya è abbastanza spinoso: sembra infatti che Blair abbia fatto pressioni sul governo israeliano per far liberare delle frequenze che sarebbero poi state utilizzate dalla società di telefonini della penisola arabica e, si dice, cara a Abbas e affini. Secondo la ricostruzione dei fatti fatta da Reuters, ben 16 milioni di dollari di aiuti, originariamente destinati a piccole attività agricole e artigianali palestinesi, sarebbero state dirottati sulla società mediorientale, che per inciso era cliente di JP Morgan (anche se c’è chi non manca di ricordare che Blair sia consulente anche del Governo del Kuwait, che controlla indirettamente il 24% del capitale di Wataniya).

Vero è che anche restavano altri fondi per gli scopi suddetti, e che comunque Wataniya ha prodotto effetti economici benefici grazie all’indotto; ma il conflitto di interessi pesa eccome sulla credibilità, già abbastanza malridotta, del capo mediatore. Ma su questo, Blair è stato chiaro: “Resterò”, ha detto, chiudendo l’intervista.

 

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