di Daniele John Angrisani

Il giornale più famoso e conosciuto d'America è ufficialmente in crisi e non sa come uscirne. Questa è la conclusione alla quale sono arrivati diversi esperti del settore americani e non, dopo la serie di scandali che ha colpito in maniera piuttosto forte la credibilità del giornale liberal newyorkese, lasciando costernati parecchi suoi lettori. Per di più questo avviene proprio nel momento nel quale si stava tentando di ritirarlo su, anche attraverso una sezione a pagamento sul suo sito online. Le prime avvisaglie della crisi del New York Times, che è poi anche sintomatica della crisi in generale dei media americani, sono arrivate nel 2002. Già allora infatti il New York Times venne travolto da uno scandalo - Jayson Blair, un reporter afro-americano, ammise di avere copiato e inventato alcuni articoli - definito sulle colonne del quotidiano "il punto più basso raggiunto in 152 anni di storia del giornale". Questo scandalo costò il posto all'allora direttore Howell Raines e al suo vice Gerald Boyd costretti a dimettersi dall´editore Arthur Ochs Sulzberger jr., l´ultimo rampollo della famiglia che da oltre cent´anni è proprietaria del New York Times. Al posto di Raines - nominato solo nel 2001 - venne chiamato Bill Keller, un ex vicedirettore che due anni prima aveva conteso il posto proprio a Raines e che aveva promesso di fare tutto il possibile per ridare lustro al giornale infangato.

Ma così non è stato. Nel 2003 Judith Miller, inviata "embedded" del New York Times a Baghdad, vinse il premio Pulitzer per una serie di articoli sul pericolo delle fantomatiche "armi di distruzione di massa" di Saddam Hussein, poi, come ben sappiamo, mai trovate. Il 28 gennaio 2003, nel Discorso sullo Stato dell'Unione, il presidente George W. Bush affermò: "il governo britannico ha appreso che Saddam ha cercato di ottenere significative quantità di uranio yellowcake dall'Africa".
Si trattava di una informazione del tutto falsa e fabbricata ad arte dai servizi segreti italiani ed americani, come si sarebbe venuto a scoprire in seguito. Eppure la Miller, e non solo lei, continuarono a considerare le parole della Casa Bianca come oro colato.

Quando uno dei consiglieri presidenziali, Joseph Wilson, ebbe il coraggio di scrivere proprio dalle pagine del New York Times, la sua contrarietà ad una guerra basata su informazioni non veritiere, fu proprio la Miller con altri colleghi ad iniziare a tramare contro di lui. Il 12 giugno il Washington Post fece il resoconto della missione di un "ex diplomatico" in Niger per conto della Cia. Cheney chiese al capo della Cia George Tenet informazioni su tale missione, poi dopo averle ottenute, comunicò al suo capo di gabinetto I. Lewis Libby che si trattava di Wilson e che sua moglie, Valerie Plame, lavora per la Cia. Poco dopo sarebbe stato lo stesso Libby (detto "Scooter") a fornire questa informazione alla Miller, che a sua volta la passò a Robert Novak, un importante columnist conservatore del New York Times, che per primo fece pubblicamente, il 14 luglio 2003, il nome della Plame come agente Cia, dando inizio a ciò che abitualmente ora viene definito come Cia-gate e per il quale lo stesso Libby è stato formalmente incriminato da una corte federale nel mese di ottobre 2005.

La Miller invece si sarebbe fatta diverse settimane di prigione dal luglio al settembre 2005 per non aver voluto rivelare la fonte delle sue informazioni dinanzi al "grand jury".

Ma quando le acque sembravano finalmente calmarsi ed il New York Times iniziava lentamente a riprendersi da questi scandali, ecco una nuova grave bufera abbattersi sul quotidiano newyorkese. La storia stavolta è quella delle intercettazioni elettroniche ordinate dalla Casa Bianca sui cittadini americani subito dopo l'11 settembre 2001. Caratteristica non indifferente, tutte condotte senza l'obbligatorio mandato dei giudici. Tale notizia è stata esposta finalmente, ma tardivamente, lo scorso mese di dicembre dallo stesso quotidiano. Il problema è che, per ammissione stessa del direttore Keller, le prime voci su queste intercettazioni risalgono addirittura a 14 mesi or sono, quindi all'ottobre del 2004, ovvero in piena campagna elettorale fra George Bush e John Kerry.

Il fatto che il Presidente avesse aggirato la legge sulle intercettazioni del 1979, nonché lo spirito della Costituzione americana che ha giurato di difendere da Presidente, avrebbe potuto creare seri problemi a Bush in quel momento storico, potenzialmente mettendo, secondo alcuni osservatori, in dubbio la sua rielezione. Ma Keller decise di non pubblicare tale informazione e di attendere che l'autore dell'inchiesta, James Risen, ne facesse con comodo un libro, "State of War" (in uscita questo mese negli Stati Uniti). Una volta diventate di dominio pubblico, nel dicembre 2005 la stessa Casa Bianca ammise che tali notizie corrispondevano a verità.

La decisione di non pubblicare quanto in suo possesso, è stata però denunciata pochi giorni fa sulle pagine dello stesso New York Times da Byron Calame, la persona che lo stesso direttore del quotidiano scelse nel 2003 per riportare ordine e credibilità in una redazione scossa da errori, falsi editoriali, bufale passate dalla Casa Bianca e scandali. Fu "un silenzio fragoroso" scrive, una decisione "spaventosamente inadeguata", e come dargli torto. Per di più si tratta degli stessi comportamenti che il quotidiano attribuisce ora all'Amministrazione Bush, ovvero di un'accusa doppiamente pesante. Il paradosso è che dopo aver per anni acconsentito senza porsi troppe domande a fare da cassa di risonanza per la propaganda presidenziale contro le armi di distruzione di massa mai esistite, ora il New York Times si trova in crisi
perchè una informazione in suo possesso, poi risultata reale, non è stata data quando poteva cambiare il corso della Storia. La solita storia.

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