di Michele Paris

Nel vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico (GCC), andato in scena lunedì a Riyadh, i rappresentanti delle monarchie assolute alleate degli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere un accordo condiviso sulla proposta di creare una federazione tra i rispettivi governi per coordinare le principali questioni economiche, militari e di politica estera. Il progetto di unione era stato promosso dall’Arabia Saudita ed è volto a contenere più efficacemente i rigurgiti di rivolta nella regione e a creare un fronte di resistenza unito contro l’Iran.

L’incontro nella capitale saudita ha visto il ministro degli Esteri locale, Saud al-Faisal, cercare di convincere dell’opportunità di un’unione soprattutto i paesi più piccoli compresi nel GCC , i quali appaiono tutt’altro che entusiasti.

Ad annunciare il sostanziale fallimento del summit è stato lo stesso ministro saudita che, nella conferenza stampa di lunedì sera, ha però affermato che “i leader GCC hanno approvato la formazione di una commissione per continuare a studiare il progetto”. La commissione dovrà presentare le proprie conclusioni nel prossimo vertice dei paesi del Golfo, in programma a dicembre nella capitale del Bahrain, Manama.

L’idea di una federazione tra i regimi sunniti del Golfo Persico era stata lanciata per la prima volta nel dicembre 2011 dal sovrano saudita, Abdullah, nel corso di un appello ai vicini per unire le forze contro i pericoli che nella regione minaccerebbero la sicurezza di ogni singolo stato GCC, a cominciare dall’Iran sciita.

La riunione di lunedì era stata preceduta dalle voci di un imminente accordo per la creazione di un’unione tra Arabia Saudita e Bahrain come passo preliminare per il coinvolgimento degli altri paesi (Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar).

L’unione tra Arabia Saudita e Bahrain, alla luce delle sproporzioni tra i due paesi, si risolverebbe di fatto nella trasformazione di quest’ultimo paese in un protettorato di Riyadh e, inevitabilmente, nell’abbandono di qualsiasi timido progetto di riforma della casa regnante.

Tanto più che il Bahrain dipende già in buona parte dall’Arabia Saudita, dal momento che, secondo un accordo decennale, riceve dal potente vicino le entrate provenienti da un giacimento petrolifero saudita e che per il regime rappresentano circa il 70% dei proventi derivanti dal settore energetico.

Al contrario di quanto era stato annunciato, in ogni caso, dal vertice di lunedì non è uscito nemmeno l’accordo di federazione tra Arabia Saudita e Bahrain, messo da parte, secondo Saud al-Faisal, perché l’obiettivo unico di Riyadh sarebbe quello di unire tutti e sei i paesi aderenti al GCC.

Secondo quanto rivelato al Wall Street Journal dal Royal United Services Institute, un think tank con sede in Qatar, i diplomatici giunti a Riyadh per il summit avrebbero in realtà condotto frenetici negoziati fino alla vigilia dell’incontro, ma non sarebbero riusciti a trovare un’intesa perché alcuni paesi hanno chiesto più tempo per valutare approfonditamente tutti i dettagli della proposta saudita.

La decisione finale di mettere da parte anche il progetto di unione tra Arabia Saudita e Bahrain rivela comunque le divisioni all’interno degli stessi gruppi di potere dei due paesi, nonostante gli entusiasmi proclamati a livello ufficiale da Riyadh e Manama. Secondo alcuni giornali occidentali, per alcuni membri delle famiglie reali di Arabia Saudita e Bahrain una federazione sarebbe controproducente, in quanto provocherebbe un’ulteriore radicalizzazione degli oppositori, mentre a promuoverla sarebbero esclusivamente gli esponenti della linea dura nella gestione dei rapporti con l’Iran e del dissenso interno.

A spingere l’Arabia Saudita verso la promozione di rapporti più stretti con i propri vicini ha contribuito senza dubbio l’ondata di proteste esplose lo scorso anno nel mondo arabo. Tra i più autoritari del pianeta, il regime saudita è stato scosso dalla rapidità con cui la rivolta si è diffusa in Medio Oriente nel 2011, portando al crollo, ad esempio, di un alleato di ferro come Hosni Mubarak in Egitto. Toccata marginalmente dalle manifestazioni, l’Arabia Saudita ha risposto con l’adozione di limitati programmi pubblici per ammorbidire la popolazione e, soprattutto, con il pugno di ferro, intensificando la repressione allo spuntare di ogni minino segnale di malcontento.

Proprio il Bahrain rappresenta un punto fermo per la stabilità saudita. Da qui, infatti, la rivolta a maggioranza sciita scatenata lo scorso anno contro la monarchia sunnita al-Khalifa aveva parzialmente contagiato le regioni orientali dell’Arabia Saudita, ugualmente abitate da una significativa minoranza sciita.

Su richiesta del regime e con il via libera di Washington, nel marzo 2011 Riyadh inviò così un proprio contingente militare nel Bahrain per reprimere la protesta nel sangue, proprio mentre scoppiava la crisi siriana, nella quale i sauditi hanno da subito cercato di presentarsi come i difensori dell’opposizione democratica.

Per il regime del Bahrain, a sua volta, l’ipotesi di un’unione con l’Arabia Saudita è vista, almeno tra certe fazioni della casa regnante, come un potente strumento per garantire la stabilità di un paese che continua ad essere minacciato dal vento della rivolta. Al contrario, paesi come Kuwait, Oman e Qatar vedono invece con sospetto l’ingresso in una federazione che comprometterebbe la propria sovranità a tutto vantaggio del potente vicino.

Contro il progetto di federazione si sono ovviamente espressi gli esponenti dell’opposizione in Bahrain, alcuni dei quali hanno però messo in risalto come la disponibilità della famiglia al-Khalifa a cedere parte della propria sovranità all’Arabia Saudita riveli la debolezza del regime dopo oltre un anno di proteste popolari. L’unione, d’altro canto, potrebbe produrre un certo coordinamento anche tra le forze di opposizione (sciite) di entrambi i paesi, verosimilmente risvegliando la combattività di quelle saudite.

La condanna dei progetti discussi lunedì a Riyadh, in particolare quelli relativi al Bahrain, è arrivata puntualmente anche dall’Iran, contro la cui espansione era nato il Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico nel 1981. A Teheran, infatti, 190 parlamentari l’altro giorno hanno messo la loro firma su una dichiarazione nella quale si afferma che, con un’eventuale unione tra i due paesi, “la crisi in Bahrain verrebbe spostata all’Arabia Saudita, spingendo la regione verso una maggiore instabilità”.

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