di Michele Paris

L’amministratore delegato di JPMorgan Chase, Jamie Dimon, ha testimoniato mercoledì di fronte alla commissione bancaria del Senato USA nell’ambito dell’inchiesta sulla recente colossale perdita causata da operazioni speculative ad alto rischio condotte dall’ufficio londinese della banca d’affari americana. L’apparizione pubblica di uno dei più potenti banchieri di Wall Street, più che in un interrogatorio, si è risolta in un mortificante spettacolo di servilismo da parte di un gruppo di membri del Congresso eletti dal popolo ma che, in realtà, risultano pressoché interamente al soldo della stessa JPMorgan e delle principali istituzioni finanziare del paese.

Di fronte alla commissione del Senato, Dimon avrebbe teoricamente dovuto fare chiarezza sul comportamento dei vertici della sua banca in operazioni finite male e che sono costate ai suoi clienti due miliardi di dollari. Secondo la stampa finanziaria, la perdita complessiva per JPMorgan, annunciata pubblicamente ai primi di maggio, potrebbe arrivare a toccare addirittura gli otto miliardi di dollari.

L’audizione di mercoledì fa parte dell’indagine condotta dagli organi americani addetti alla regolamentazione del settore finanziario, nonché dall’FBI. Alla commissione bancaria, in ogni caso, Dimon sapeva benissimo di non correre alcun pericolo, dal momento che avrebbe avuto a che fare con un gruppo di senatori che egli stesso e la sua banca hanno finanziato abbondantemente in questi anni con centinaia di migliaia di dollari in contributi elettorali.

Pur scusandosi per l’errore commesso, definito un “evento isolato” la cui responsabilità è da attribuire ai suoi subordinati, Dimon ha difeso strenuamente JPMorgan, della quale si è detto “orgoglioso”, ostentando la solidità conservata durante la crisi finanziaria. Come previsto, nessuno dei 22 membri della commissione ha provato a porre a Dimon una qualche domanda scomoda nel corso delle due ore dell’udienza.

Da parte di qualche senatore democratico c’è stato un timido tentativo di sollevare la questione dell’eccessiva deregolamentazione del settore bancario, anche se nessuno ha nemmeno lontanamente accennato al comportamento criminale di JPMorgan. La maggior parte dei membri e, in particolare, i senatori repubblicani, ha invece fatto a gara nell’elogiare il banchiere che lo stesso presidente Obama ha recentemente definito come “uno dei più in gamba del paese”.

Tra i più entusiasti è stato il senatore repubblicano della Carolina del Sud, Jim DeMint, il quale ha lodato la situazione finanziaria di JPMorgan prima di finire quasi per scusarsi con Dimon per la sua convocazione di fronte alla commissione, visto che, a suo dire, “molti di noi sono manager bancari frustrati che vorrebbero gestire il vostro business al vostro posto”. Il collega repubblicano del Tennessee, Bob Corker, ha invece definito Dimon “giustamente celebre per essere uno dei migliori CEO del paese”.

L’arroganza di Jamie Dimon è emersa in un breve battibecco con il senatore democratico dell’Oregon, Jeff Merkley. Quando quest’ultimo ha sostenuto che JPMorgan è stata salvata nel 2008 grazie al denaro pubblico, Dimon ha ribattuto prontamente, accusando il senatore di essere disinformato e di aver fatto un’affermazione “di fatto sbagliata”.

Dimon ha anche avuto a disposizione una platea per criticare quelli che secondo lui sono i troppi vincoli applicati dalla politica all’industria finanziaria. Dopo aver ricordato come abbia appoggiato alcune misure contenute nella debole riforma finanziaria approvata dal Congresso nel 2010 (“Dodd-Frank law”), Dimon ha nuovamente attaccato la cosiddetta “Volcker rule”, inserita nella legge per vietare in teoria alle banche come JPMorgan, i cui depositi sono garantiti dal governo federale, di fare investimenti speculativi per il proprio profitto con il denaro dei propri clienti.

La “Volcker rule”, dal nome dell’ex governatore della Fed e già consigliere economico di Obama, è stata da subito fortemente avversata da Wall Street e perciò sensibilmente attenuata dalla Casa Bianca qualche mese fa per permettere alle banche di continuare le pratiche rischiose che sarebbero dovute essere bandite.

Quasi a giustificare la condotta della sua banca, Dimon ha poi detto che nel primo trimestre del 2012 JPMorgan ha accumulato 400 miliardi di dollari in maggiori depositi e che ha definito “denaro in eccesso” da investire in qualche modo. Con le piccole imprese sempre più in difficoltà nell’accedere al credito e i devastanti tagli alla spesa pubblica messi in atto in questi anni dal governo federale e dagli stati per far fronte ai buchi di bilancio, il sistema che permette a istituti come quello diretto da Jamie Dimon di prosperare fa dunque in modo che una montagna di “denaro in eccesso” possa essere impiegato in nuove rischiose operazioni speculative per aumentare il livello dei profitti.

Il trattamento riservato dal Senato al CEO di JPMorgan appare ancora più sconcertante alla luce delle sue evidenti responsabilità nella perdita da due miliardi di dollari e del comportamento tenuto per cercare di nascondere le conseguenze provocate dalle attività dell’ufficio di Londra (Chief Investment Office, CIO). Come hanno messo in luce alcune indagini giornalistiche, tra cui questa settimana quella pubblicata da Bloomberg News, il CIO era stato creato proprio da Dimon nel 2005 con il compito di incrementare il più possibile i profitti della banca piazzando scommesse ad alto rischio.

Il CIO era un’entità separata dal resto di JPMorgan e a coloro che vi operavano era espressamente consentito prendere rischi maggiori del dovuto per raggiungere gli obiettivi fissati. Come se non bastasse, sono emersi forti indizi che indicano come i vertici dell’istituto abbiano manipolato i bilanci per cercare di nascondere la perdita. JPMorgan, inoltre, avrebbe utilizzato tutta la propria influenza politica per evitare fastidiose ingerenze dei regolatori negli affari del CIO.

I segnali d’allarme all’interno di JPMorgan relativi alle operazioni fallimentari del CIO erano iniziate a circolare già dal mese di marzo. Il 13 aprile, tuttavia, nel corso di una conference call Dimon affermò che i timori sollevati erano solo “una tempesta in un bicchiere d’acqua”. Quando mercoledì il presidente della commissione bancaria, senatore Tim Johnson (democratico, Sud Dakota), ha chiesto a Dimon il motivo della sua affermazione avventata, quest’ultimo ha semplicemente ammesso di aver commesso un errore.

Jamie Dimon è uno dei banchieri di Wall Street con i maggiori legami a Washington e la sua banca ha influito in maniera decisiva sull’indebolimento della riforma finanziaria del 2010, soprattutto grazie ad un’aggressiva attività di lobby costata più di 7 milioni di dollari. Spendendo più di qualsiasi altro istituto finanziario per questo scopo, JPMorgan è stata in grado di assoldare abili lobbisti che, come di consuetudine a Washington, vantano precedenti legami con i membri del Congresso e, in particolare, con i senatori della commissione bancaria.

Secondo i dati del Center for Responsive Politics, inoltre, nella campagna elettorale 2012 JPMorgan ha finora sborsato 344 mila dollari a favore di candidati a cariche federali, di cui il 59% repubblicani e il 41% democratici.

Tra i maggiori beneficiari figurano proprio i membri della commissione che avrebbe dovuto mettere sotto torchio Dimon durante l’audizione dell’altro giorno. Il presidente Tim Johnson ha ad esempio incassato quest’anno da JPMorgan 39.000 dollari, Richard Shelby (repubblicano, Alabama) 73.000, Mark Warner (democratico, Virginia) 109.000, Jack Reed (democratico, Rhode Island) 30.000, il già citato Bob Corker 61.000 e Michael Crapo (repubblicano, Idaho) 34.000.

Anche lo stesso Dimon, il quale dopo aver sostenuto Hillary Clinton nelle primarie democratiche del 2008 staccò un assegno da 50 mila dollari per Obama, contribuisce personalmente alle campagne elettorali dei politici che occupano le posizioni più ambite a Washington, indipendentemente dall’affiliazione di partito, tra cui appunto i due membri più importanti della commissione bancaria del Senato, Tim Johnson e Richard Shelby.

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