di Michele Paris

La durissima medicina somministrata a milioni di cittadini in questi anni dalle autorità europee e dai governi nazionali, dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali, avrebbe dovuto servire a mettere in ordine i bilanci dei paesi più in difficoltà e a ridurre il debito pubblico ufficialmente all’origine della crisi in atto. A smentire ancora una volta in maniera clamorosa questa teoria propagandata fino alla nausea da politici e media è stato questa settimana un rapporto dello stesso ufficio statistiche dell’Unione Europea (Eurostat), il quale ha confermato che i provvedimenti messi in atto da Dublino ad Atene non hanno fatto altro che deprimere ulteriormente la crescita economica e aumentare i livelli di indebitamento.

Le cifre diffuse mercoledì da Eurostat indicano, per il secondo trimestre del 2012, un debito in media pari al 90% del PIL nei 17 paesi che utilizzano la moneta unica, vale a dire il livello più alto dal 1999. Soprattutto, con l’intensificarsi degli attacchi a lavoratori, pensionati, giovani, disoccupati e classe media sotto forma di tasse e tagli alla spesa pubblica, il rapporto debito/PIL è aumentato rispetto sia al primo trimestre dell’anno (88,2%) sia al dato dell’intero 2011 (87,1%).

Le sofferenze patite da decine di milioni di cittadini europei non sono inoltre servite a invertire la tendenza dell’economia, tanto che cinque paesi rimangono tecnicamente in recessione (Cipro, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna), mentre la tendenza generale continua a rimanere negativa, come dimostreranno quasi certamente i dati relativi al terzo trimestre che verranno diffusi il mese prossimo.

A stare peggio tra i paesi dell’eurozona sul fronte dell’indebitamento è la Grecia, vittima delle più dure imposizioni da parte della cosiddetta troika (UE, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), con un rapporto debito/PIL salito tra il primo e il secondo trimestre dell’anno dal 136,9% al 150,3%. Subito dietro Atene si trova l’Italia, dove le misure introdotte dal governo imposto dalle grandi banche e da Bruxelles hanno soffocato la crescita economica facendo passare il rapporto debito/PIL dal 123,7% al 126,1%.

Non molto meglio se la passano poi Irlanda e Portogallo, due paesi che, come la Grecia, hanno significativamente beneficiato, per così dire, dei piani di “salvataggio” pari a svariate decine di miliardi di euro erogati da UE e FMI in cambio di drastiche misure di austerity.

Un’altra tesi che fa parte della propaganda della classe dirigente europea è quella che negli scorsi decenni i governi hanno abusato della spesa pubblica, garantendo ai propri cittadini servizi e benefit che non si potevano permettere se non facendo appunto esplodere il problema del debito sul lungo periodo.

In realtà, ciò sarebbe dovuto principalmente agli interventi resi necessari a partire dal 2008 per salvare le banche sull’orlo del fallimento, in particolare in Spagna e in Irlanda. Il trasferimento di colossali somme di denaro nelle casse degli istituti responsabili della crisi, com’è ovvio, è stato poi compensato con tagli alla spesa e ai programmi di assistenza pubblici, ma anche con licenziamenti di massa e tasse che colpiscono invariabilmente le classi più disagiate.

Le ricette adottate ovunque in questo frangente storico, oltretutto, secondo molti economisti non eviteranno comunque una qualche forma di default da parte dei paesi più indebitati. Riferendosi alla Grecia e non solo, in una recente intervista al New York Times, l’economista Jörg Krämer, di Commerzbank, ha ad esempio affermato che per “rendere il peso del debito sostenibile, dovrà esserci una qualche ristrutturazione del debito stesso”.

I dati di Eurostat e la situazione in cui versano numerosi paesi europei confermano dunque che le misure draconiane fin qui implementate e che ancora attendono i cittadini non servono a diminuire il debito pubblico, come viene fatto credere, bensì lo fanno aumentare, causando un aggravamento della recessione e un’impennata dei livelli di disoccupazione.

Che le misure prolungate di austerity avrebbero finito per produrre effetti simili era d’altra parte risaputo, dal momento che economisti e politici ben conoscono, quanto meno, la lezione degli anni successivi alla crisi del 1928 negli Stati Uniti, in seguito alla quale l’applicazione prematura di misure come quelle attuali comportò un peggioramento della situazione, precipitando il paese nella Grande Depressione.

Anche per questo, appare più che legittimo affermare che lo scopo delle politiche di rigore adottate da una classe politica europea totalmente al servizio dei grandi interessi economici e finanziari, sia quello di utilizzare la crisi del debito per condurre attacchi senza precedenti alle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, facendo fronte alla crisi strutturale del capitalismo internazionale con il ridimensionamento permanente delle politiche di spesa pubblica dei governi, accompagnate da un virtuale azzeramento dei residui diritti conquistati dai lavoratori in decenni di lotte, così da creare un bacino di manodopera a basso costo e senza protezioni a disposizione delle aziende europee.

Un esempio di quello che attende i lavoratori europei - e non solo - viene dalla Grecia, vero e proprio laboratorio sul quale la troika da tempo esercita un potere dittatoriale, imponendo il volere degli ambienti finanziari internazionali che si traduce in sofferenze indicibili per la popolazione e nella distruzione del tessuto sociale. Proprio di questi giorni è la notizia dell’accordo raggiunto tra il governo di Atene e la troika per l’erogazione di una nuova tranche da 13,5 miliardi di euro, che andranno peraltro in gran parte nelle casse dei creditori della Grecia, in cambio di altre misure di austerity.

Per questa ragione, suonano del tutto vuoti gli avvertimenti e le critiche che rimbalzano sui giornali di tutta Europa di quanti fanno notare come le autorità UE e i governi nazionali siano eccessivamente fissati su quello che, ad esempio, giovedì sul Sole24Ore Marco Fortis ha definito il “totem” del rapporto debito/PIL. Tale “ossessione” non è da attribuire ad una volontà cieca di burocrati di Bruxelles o Francoforte, ma è una politica messa in atto deliberatamente per portare a termine una contro-rivoluzione sociale (e politica) in nome e per conto dei grandi interessi finanziari.

Una realtà, questa, confermata anche dal fatto che “gli sforzi fiscali eccessivi”di cui parla lo stesso Fortis sono arrivati, per quanto riguarda l’Italia, nonostante la situazione del paese fosse di “assoluta sostenibilità finanziaria” e con “un’economia solida”.

Simili politiche hanno già causato e continueranno a causare fortissime tensioni sociali in molti paesi, tenute però finora sotto controllo grazie agli sforzi nel far digerire alle popolazioni le misure di austerity e gli assalti ai diritti del lavoro di partiti nominalmente di centroinistra che, come in Grecia e in Italia, sostengono governi politici o tecnici agli ordini della finanza internazionale. Le organizzazioni sindacali, invece, hanno in questo scenario il compito di contenere i malumori ampiamente diffusi tra i lavoratori tramite occasionali proteste e scioperi innocui che servono solo come valvola di sfogo temporanea.

Nel caso dell’Italia, poi, il sostegno alle politiche anti-sociali dettate dall’UE per salvare gli interessi di banche e speculatori è giunto in maniera ferma anche dalle più alte autorità dello Stato, come il presidente della Repubblica Napolitano, il quale ha svolto un ruolo decisivo sia nel garantire l’applicazione dei diktat della finanza internazionale con il passaggio di poteri da Berlusconi a Monti, sia nel frenare le tensioni nel paese con ripetuti appelli all’unità in un momento di crisi.

Lo stesso presidente proprio l’altro giorno ha inoltre invitato “gli italiani, votando ad aprile, a tenere conto della importantissima esperienza del governo Monti”, prospettando la necessità di continuare sulla strada seguita in questo ultimo anno. Un’esperienza quella che ha avuto come protagonista l’ex consulente di Goldman Sachs che è stata effettivamente importantissima ma, al contrario di quello che afferma pubblicamente Napolitano, solo per la devastazione sociale che ha portato e che porterà in Italia come altrove per salvare il sistema finanziario internazionale.

Un’esperienza, infine, che gli italiani terranno bene a mente di qui a pochi mesi, quando le elezioni politiche, come indicano le previsioni, faranno segnare con ogni probabilità un’esplosione del voto di protesta e dei livelli di astensionismo.

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