di Michele Paris

Rispettando le previsioni fornite dai sondaggi nelle ultime settimane, le elezioni per il rinnovo della Camera bassa della Dieta (Parlamento) giapponese hanno fatto registrare domenica una umiliante sconfitta per il partito di centro-sinistra al governo dal 2009. La vera e propria disfatta del Partito Democratico (DPJ) dell’impopolare premier Yoshihiko Noda ha consentito così il trionfo e il ritorno al potere del Partito Liberal Democratico (LDP), il quale, nonostante l’appoggio tutt’altro che entusiastico degli elettori nipponici, potrà ora disporre di una vastissima maggioranza per imprimere una netta sterzata a destra delle politiche del paese, sia sul fronte domestico che su quello estero.

I risultati finali del voto anticipato hanno assegnato al DPJ 294 seggi sui 480 in palio. Assieme al fedele alleato, il partito conservatore di ispirazione buddista Nuovo Komeito, il DPJ potrà contare su una super-maggioranza di due terzi dei seggi totali, con la possibilità di superare eventuali veti posti dalla Camera alta, per il cui rinnovo si voterà comunque a luglio, sulla legislazione approvata da quella bassa.

La prestazione del DPJ ha assunto al contrario le proporzioni di un tracollo, con appena 59 seggi conquistati contro i 308 del 2009. Il DPJ rimane il secondo partito in Parlamento ma con un margine di soli 4 seggi sul neonato Partito per la Restaurazione del Giappone, fondato dal giovane e populista sindaco di Osaka, Toru Hashimoto. Quest’ultima formazione nutriva in realtà ambizioni maggiori ma il poco tempo a disposizione per la campagna elettorale, assieme ad una certa confusione prodotta da un’alleanza siglata in extremis con l’ex governatore di estrema destra dell’area metropolitana di Tokyo, l’80enne Shintaro Ishihara, ha probabilmente finito per offuscare l’immagine di partito del cambiamento agli occhi di molti elettori.

In conseguenza di questi risultati, nei prossimi giorni l’ex premier ultra-nazionalista Shinzo Abe verrà incaricato di formare un nuovo governo, dopo che tra il 2006 e il 2007 aveva già presieduto un esecutivo impopolare segnato da scandali vari prima di rassegnare le proprie dimissioni, ufficialmente per motivi di salute.

Per ammissione dello stesso Abe, il voto di domenica non è stato tanto un attestato di fiducia dei giapponesi nei confronti del suo partito quanto una punizione inflitta al Partito Democratico. Interrompendo una serie quasi ininterrotta di governi liberal-democratici durata oltre cinque decenni, nel 2009 il DPJ aveva messo a segno una nettissima vittoria alle urne grazie a promesse di cambiamento che prospettavano un modesto aumento della spesa pubblica, il ridimensionamento della potente burocrazia statale e una politica estera svincolata dal rapporto esclusivo con Washington tramite aperture verso la Cina.

In seguito alle dimissioni già nel giugno 2010 del premier Yukio Hatoyama, a causa della mancata promessa di chiudere una base militare americana sull’isola di Okinawa, a Tokyo si sono poi susseguiti altri due governi - guidati da Naoto Kan e Yoshihiko Noda - che hanno subito riallineato il paese sulle posizioni degli Stati Uniti e fatto ricorso alle politiche di austerity adottate nel resto del pianeta con l’intensificarsi della crisi economica.

La pessima gestione della crisi nucleare di Fukushima e la recente approvazione di un aumento della tassa sui consumi hanno alla fine segnato definitivamente la sorte dell’esperienza di governo del DPJ. Proprio quest’ultima tassa, inoltre, ha anche spaccato il partito di centro-sinistra, costringendo il gabinetto Noda a ricorrere ai voti dell’LDP per la sua approvazione, in cambio però dello scioglimento anticipato della Camera bassa del parlamento.

A confermare la profonda ostilità degli elettori per tutta la classe politica giapponese c’è soprattutto il dato dell’astensionismo che ha toccato il 41%, vale a dire uno dei livelli più alti nella storia del paese e, in ogni caso, di dieci punti percentuali superiore rispetto al 2009. In assenza di reali alternative, dunque, il ritorno al Partito Liberal Democratico ha rappresentato l’unica scelta possibile per la maggioranza relativa di coloro che si sono recati alle urne.

Dopo essere stato nominato leader del proprio partito nel mese di settembre, il premier in pectore Shinzo Abe aveva condotto una campagna elettorale all’insegna del nazionalismo, assecondando una tendenza di tutta la classe politica nipponica per distogliere l’opinione pubblica dai reali problemi del paese. Sul fronte dei rapporti con la Cina, Abe ha fatto intendere di non nutrire alcuno scrupolo nel far salire le tensioni, promettendo di adottare misure più dure in risposta alla condotta di Pechino attorno alla disputa territoriale in corso per le Isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale.

Inoltre, Abe propone apertamente alcune modifiche alla costituzione pacifista del 1947 per porre fine alle restrizioni imposte al ruolo delle forze armate giapponesi. Per apportare variazioni alla costituzione è necessario il voto dei due terzi di entrambi i rami del parlamento e un referendum popolare.

A partire dal primo giorno alla guida dell’esecutivo, Abe sarò tuttavia chiamato ad affrontare scelte economiche molto complicate per un paese in declino prolungato e che nel terzo trimestre del 2012 è scivolato nuovamente in recessione - la quinta negli ultimi 15 anni - così che potrebbe esserci ben poco entusiasmo, soprattutto nel Partito Nuovo Komeito, per una battaglia attorno alla modifica della costituzione.

Questo tema sull’agenda dell’LDP è però sollecitato più o meno apertamente dagli Stati Uniti che vedono con favore un impegno più attivo delle forze armate dell’alleato nel quadro della svolta dell’amministrazione Obama in Asia orientale per contenere l’espansionismo della Cina. Allo stesso tempo, il nazionalismo anti-cinese di Abe potrebbe però essere mitigato dal fatto che Pechino rimane il primo partner commerciale di Tokyo e che lo scontro diplomatico tra i due paesi ha già causato significativi danni economici per il Giappone.

Mentre Abe sarà così costretto a districarsi tra esigenze e pressioni contrastanti, è probabile comunque che alla fine a prevalere saranno le pressioni americane e la necessità di reagire ad una situazione interna che verosimilmente peggiorerà nel prossimo futuro, così che la retorica nazionalista e le azioni del governo entrante di centro-destra provocheranno un’ulteriore pericolosa escalation delle tensioni nell’intera regione.

Le preoccupazioni di Pechino per la vittoria di Abe sono d’altra parte apparse subito evidenti dopo la chiusura dei seggi. Ad esempio, l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha pubblicato un editoriale per manifestare l’insoddisfazione del regime per i risultati annunciati da Tokyo. L’articolo ha messo in guardia dalle tendenze nazionaliste dei politici giapponesi che potrebbero peggiorare i rapporti con i vicini, minacciare le relazioni economiche e la stabilità della regione.

Il governo Abe, peraltro, potrebbe complicare i rapporti non solo con la Cina ma anche con un altro vicino con cui il Giappone condivide l’alleanza con gli Stati Uniti, vale a dire la Corea del Sud, dove si voterà il 19 dicembre per scegliere il nuovo presidente. A suggerirlo sono state le tendenze revisioniste ostentate in campagna elettorale dal futuro premier in relazione alle responsabilità del suo paese per i crimini di guerra commessi in Cina e nella penisola coreana negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Washington insiste da tempo per una partnership più stretta tra Tokyo e Seoul in funzione anti-cinese ma uno sforzo in questo senso è già naufragato in maniera clamorosa pochi mesi fa a causa del riemergere di rigurgiti nazionalisti in entrambi i paesi alla vigilia di delicati appuntamenti elettorali.

Le acque potrebbero diventare agitate infine anche nei rapporti con i competitori sui mercati internazionali, dal momento che sul fronte economico Shinzo Abe ha promesso, oltre ad un improbabile piano di opere pubbliche, una politica monetaria ispirata al cosiddetto “quantitative easing”, sulla linea di quanto fatto a più riprese dalla Fed americana, così da indebolire artificialmente lo yen e ridare fiato all’export nipponico, su cui si basa in gran parte la tenuta della terza economia del pianeta.

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