di Michele Paris

A poche ore di distanza dal voto positivo del Senato, la Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti nella tarda serata del primo giorno del nuovo anno ha dato il via libera definitivo all’accordo bipartisan, negoziato dal repubblicano Mitch McConnell e dal vice presidente Joe Biden, che ha evitato il cosiddetto “precipizio fiscale” (“fiscal cliff”).

Nonostante i tentativi di dipingere la risoluzione temporanea della crisi come una vittoria per il presidente Obama e il mantenimento della sua promessa elettorale di alzare le tasse per i redditi più alti, la legislazione appena approvata risulta estremamente gradita ai repubblicani, i quali, oltretutto, partiranno ora da una posizione di netto vantaggio in vista delle trattative che inizieranno nelle prossime settimane per decidere colossali tagli alla spesa pubblica.

Nelle ultime fasi del 112esimo Congresso americano, dunque, la Camera ha passato in extremis un provvedimento che blocca l’entrata in vigore di riduzioni automatiche di spesa e aumenti generalizzati del carico fiscale per i contribuenti con 257 voti a favore e 167 contrari. Ad evitare il “fiscal cliff” è stato l’apporto decisivo dei deputati democratici, 172 dei quali si sono uniti ad appena 85 facenti parte della maggioranza repubblicana per consentire l’approvazione dell’accordo. Ben 151 repubblicani e 16 democratici si sono invece espressi contro la misura, la quale nelle prime ore dell’anno al Senato aveva raccolto una maggioranza schiacciante (89 a 8).

Come aveva insistentemente chiesto il presidente, i tagli alle tasse implementati durante l’amministrazione Bush sono stati soppressi per gli americani più facoltosi, mentre per il resto della popolazione sono stati resi permanenti. Obama, tuttavia, aveva promesso in campagna elettorale di volere mantenere immutate le aliquote fiscali solo per i redditi inferiori ai 250 mila dollari, mentre l’intesa sulla quale si è espresso positivamente il Congresso ha alzato questa soglia a 400 mila dollari per singoli individui e 450 mila dollari per le famiglie. Per coloro che denunciano redditi superiori a queste somme, e solo per la quota eccedente 400 mila o 450 mila dollari, l’aliquota salirà dal 35% al 39,6%, vale a dire ad un livello ancora nettamente inferiore a quello in vigore, ad esempio, durante la presidenza Reagan.

L’approssimarsi del “precipizio fiscale” ha creato non poca agitazione all’interno dei due schieramenti politici, in particolare tra le fila repubblicane. A testimonianza delle tensioni interne, nessuno dei leader del partito che detiene la maggioranza alla Camera ha espresso in aula il proprio appoggio all’accordo. Il numero due e il numero tre del Partito Repubblicano alla Camera, rispettivamente Eric Cantor (Virginia) e Kevin McCarthy (California), hanno addirittura votato contro il provvedimento. A favore ha votato invece lo speaker, John Boehner.

Per la maggior parte dei media americani, la motivazione ufficiale della freddezza repubblicana sarebbe da ricercare nell’assenza di tagli alla spesa nell’accordo stipulato dal senatore McConnell e da Biden oppure nell’intransigenza assoluta dei membri più conservatori della Camera, contrari anche solo all’aumento poco più che simbolico delle tasse per una ristrettissima minoranza di contribuenti privilegiati.

A ben vedere, tuttavia, la legislazione che ha scongiurato il “fiscal cliff” non deve avere turbato più di tanto i deputati repubblicani, anche se nelle scorse settimane era circolata una versione da loro preferita e che prevedeva l’innalzamento delle tasse solo per i redditi superiori al milione di dollari.

Infatti, la linea dura dei repubblicani alla Camera ha in sostanza spinto ancora una volta i democratici a concedere terreno ai rivali, alzando la soglia del reddito previsto per ottenere il prolungamento indefinito dei tagli alle tasse. Inoltre, l’accordo partorito dal Senato ha offerto alla maggioranza repubblicana alla Camera una via d’uscita dignitosa all’impasse in cui essa stessa si era infilata, presentando la proposta Biden-McConnell come l’unica e ultima possibilità per salvare il paese dalla catastrofe.

Così, con un provvedimento sul quale avrebbero finito inevitabilmente per convergere i democratici, i vertici repubblicani hanno deciso di far votare a favore solo una parte della loro delegazione alla Camera per garantirne il passaggio, consentendo ai membri che rappresentano i distretti più conservatori, e quindi più vulnerabili nelle prossime elezioni in caso di un loro voto per l’aumento delle tasse, di esprimere parere contrario.

Che l’accordo finale sia gradito ai repubblicani è confermato dal fatto che esso rende definitivi i tagli alle tasse di Bush per il 99,3% dei contribuenti americani, compresi quelli con redditi non esattamente da classe media. Sul piano politico, soprattutto, i repubblicani hanno poi ottenuto una misura che risponde in gran parte agli interessi che rappresentano, facendola passare per una vittoria di Obama e dei democratici.

In questo modo, nelle prossime settimane, quando si dovrà decidere sui tagli alla spesa e sull’innalzamento del tetto del debito USA, il presidente e il suo partito si ritroveranno praticamente senza più nessun capitale politico da spendere né possibilità di fare pressioni sui repubblicani con la minaccia dell’aumento automatico delle tasse, così che questi ultimi potranno verosimilmente ottenere in cambio un drastico ridimensionamento dei programmi pubblici. Con il voto di inizio anno, infatti, il “fiscal cliff” è stato soltanto rinviato di due mesi e la nuova scadenza coinciderà appunto con il venir meno delle facoltà del governo federale di auto-finanziarsi con l’attuale livello massimo di indebitamente stabilito per legge.

La posizione repubblicana sarà rafforzata anche dal fatto che l’accordo approvato martedì notte a Washington aggiungerà altri 4 mila miliardi di dollari al deficit federale nel prossimo decennio, alimentando le richieste di quanti chiedono l’implementazione di tagli alla spesa. Ciò è dovuto, oltre ai mancati introiti dovuti alla resa permanente dei tagli alle tasse, a varie altre misure, tra cui l’espansione di rimborsi fiscali per famiglie con figli, le modifiche apportate ad una tassa (“alternative minimum tax”) che avrebbe dovuto aumentare per decine di milioni di contribuenti e il prolungamento di limitati sussidi di disoccupazione in scadenza per oltre due milioni di americani.

In ogni caso, i tagli fiscali confermati dal Congresso saranno virtualmente annullati per i redditi più bassi. Infatti, a partire dal primo gennaio una trattenuta nella busta paga dei lavoratori dipendenti con redditi inferiori ai 110 mila dollari, destinata al finanziamento di Social Security, tornerà al 6,2% dopo essere stata al 4,2% nel corso degli ultimi due anni. Questo aumento non è stato affrontato dall’accordo sul “fiscal cliff” e colpirà più di un terzo dei contribuenti americani.

A beneficio dei redditi più alti, invece, l’accordo prevede che la tassa di successione scatterà solo per beni che valgono almeno 5 milioni di dollari, mentre la Casa Bianca e i democratici intendevano ristabilire la soglia dei 3,5 milioni, anche se l’aliquota salirà dal 35% al 40%. Allo stesso modo, sempre per i redditi superiori ai 450 mila dollari l’anno, la tassazione sui dividendi salirà solo di 5 punti percentuali (dal 15% al 20%), cioè molto meno rispetto al 39,6% previsto se gli Stati Uniti fossero andati incontro al “fiscal cliff”.

In risposta all’accordo di inizio anno, i mercati internazionali hanno come previsto fatto segnare rialzi significativi, sia per l’inclusione di misure come queste ultime sia perché il provvedimento spiana la strada alle imminenti trattative su tagli senza precedenti alla spesa pubblica. Le strategie ricattatorie degli ambienti finanziari rimangono comunque pronte ad essere impiegate nei confronti dei politici di Washington in caso di esitazioni o disaccordo persistente.

Le pressioni su democratici e repubblicani si baseranno sulla tesi che, dal momento che i ricchi sono stati sufficientemente colpiti dall’aumento delle tasse, toccherà ora a classe media, lavoratori e pensionati fare la loro parte con nuovi durissimi sacrifici per aggiustare i conti del paese. Su queste posizioni è d’altra parte già assestato tutto l’establishment politico d’oltreoceano, a cominciare dal presidente Obama, il quale domenica scorsa al programma televisivo della NBC, “Meet the Press”, ha ribadito per l’ennesima volta di essere pronto a discutere della “riforma” di popolari programmi pubblici di assistenza come Medicare e Medicaid, da cui dipendono decine di milioni di americani.

A rendere poi ancora più amara per le classi più disagiate la presunta vittoria dell’inquilino democratico della Casa Bianca sul “fiscal cliff” è infine la sua disponibilità a concordare con i repubblicani una “riforma” complessiva anche del sistema fiscale nel corso del 2013. In essa, come ha chiarito Obama nel recente passato, saranno valutate riduzioni dei livelli di tassazione per i redditi più elevati e per le corporations, così da neutralizzare di fatto gli irrisori aumenti appena decisi in questo inizio di nuovo anno.

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