di Michele Paris

La più recente tornata di negoziati sul discusso programma nucleare iraniano tra i rappresentanti di Teheran e i cosiddetti P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania) si è chiusa mercoledì ad Almaty, in Kazakistan, con modestissimi passi avanti per sbloccare una situazione di stallo interamente creata dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati per ragioni di natura geo-politica.

Il summit appena concluso ha visto la presentazione nella giornata di martedì della nuova proposta di accordo dei P5+1 agli emissari dell’ayatollah Ali Khamenei, guidati dal segretario del Consiglio Nazionale Supremo per la Sicurezza dell’Iran, Saeed Jalili. Come riportato dalla stampa internazionale nei giorni precedenti l’incontro, la proposta avanzata in Kazakistan è stata molto simile a quelle già discusse e puntualmente respinte da Teheran nei precedenti vertici andati in scena a partire dal 2009.

Le condizioni per ottenere un parziale e graduale allentamento delle sanzioni economiche che pesano sulla Repubblica Islamica, cioè, hanno incluso principalmente lo stop all’arricchimento dell’uranio al 20%, l’esportazione all’estero di quello già arricchito a questo o ad un livello superiore per la conversione in combustibile e la chiusura dell’installazione nucleare di Fordo. Quest’ultimo punto è probabilmente il più controverso, poiché Fordo è costruita all’interno di una montagna nei pressi della città di Qom, nell’Iran centrale, per proteggere le attrezzature adibite all’arricchimento dell’uranio da eventuali bombardamenti aerei di Israele o degli Stati Uniti.

Proprio su questo punto, inoltre, le ricostruzioni della due giorni di Almaty da parte dei giornali sono risultate contrastanti. Mentre la stampa occidentale ha generalmente confermato che i rappresentanti dei P5+1 hanno ribadito la necessità della chiusura dell’installazione di Fordo, Jalili avrebbe invece sostenuto che, in questa occasione, tale richiesta non è stata fatta.

Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Fars, infatti, nelle dichiarazioni seguite al vertice, il capo dei negoziatori iraniani avrebbe affermato che “Fordo è un sito legale e noto all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA)” e in questa struttura “le attività continuano sotto la supervisione dell’AIEA”, così che la sua “chiusura non è giustificata” e, comunque, i P5+1 “non hanno presentato una tale richiesta”.

La questione non è di poco conto e potrebbe effettivamente segnare, se la versione iraniana fosse confermata, un leggero ammorbidimento della posizione dei P5+1 e fare così intravedere un minimo spiraglio, visto che l’Iran ha da tempo mostrato la propria disponibilità ad accettare la cessazione dell’arricchimento dell’uranio al 20% e l’invio all’estero delle scorte già accumulate, sia pure in cambio di un significativo allentamento delle sanzioni.

Forse anche per questa ragione, dunque, al termine dell’incontro lo stesso Jalili è apparso decisamente più soddisfatto rispetto alle sue controparti. L’emissario di Khamenei ha infatti parlato di “passi nella giusta direzione” e di proposte “più realistiche” da parte dei P5+1 rispetto al passato. Nonostante il presunto avvicinamento delle due posizioni descritto da Jalili, a suo dire ci sarebbe però ancora “una lunga strada da percorrere” per raggiungere un punto d’incontro.

L’ottimismo mostrato dalla delegazione iraniana, confermato alla Reuters anche dal ministro degli Esteri Ali Akbar Salehi nel corso di una conferenza ONU a Vienna, appare piuttosto sorprendente, almeno a giudicare dalle analisi dei giornali occidentali delle ultime settimane, secondo i quali Teheran avrebbe finito per presentarsi in Kazakistan con una posizione di quasi totale chiusura, vista l’inopportunità di fare concessioni prima delle elezioni presidenziali del prossimo mese di giugno.

I diplomatici occidentali, invece, hanno offerto valutazioni più prudenti, facendo notare come alla fine non sia stato raggiunto nessun risultato concreto. Un delegato dei P5+1 presente ad Almaty ha però rivelato sempre alla Reuters che gli iraniani sono sembrati disposti a “percorrere nuove strade” nelle trattative in corso, pur senza chiarire fino a che punto abbiano intenzione di spingersi.

Come era accaduto nei precedenti incontri, così, l’unico punto su cui è stato trovato un accordo sono state le date dei prossimi colloqui, che si terranno a Istanbul il 18 marzo e ancora nella città kazaka il 5 e il 6 aprile. Nel primo caso, a discutere saranno gli esperi nucleari delle due parti, mentre ad Almaty il summit sarà nuovamente di natura politica. Prima di questa settimana, l’Iran e i P5+1 si erano incontrati per l’ultima volta a Mosca nel giugno del 2012.

La consueta freddezza mostrata in particolare dai rappresentanti dei governi occidentali è d’altra parte coerente con l’utilizzo fatto soprattutto da Washington dei summit come quello appena concluso in Kazakistan, cioè come un palcoscenico internazionale per aumentare le pressioni sull’Iran imponendo condizioni inaccettabili che vengono inevitabilmente rispedite al mittente.

A conferma di questo atteggiamento, lo scorso mese di gennaio, l’annuncio del nuovo round di negoziati di Almaty era stato accompagnato dall’adozione da parte del Dipartimento del Tesoro americano di una nuova serie di pesanti sanzioni ai danni dell’Iran, che andavano a colpire anche entità che nulla hanno a che fare con il programma nucleare di questo paese.

Più in generale, come ha ricordato mercoledì il New York Times, l’obiettivo ultimo dei colloqui sarebbe quello di costringere Teheran a conformarsi alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che richiedono l’interruzione totale dell’attività di arricchimento dell’uranio fino a quando non verrà dimostrato che non esiste alcun programma nucleare a fini militari o installazioni segrete.

Ciò corrisponde in sostanza ad un’inversione dell’onere della prova, pressoché impossibile da dimostrare e che paralizza le due parti in trattative virtualmente infinite, dal momento che l’AIEA, la quale monitora continuamente il programma nucleare di un paese che ha sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, non ha finora riscontrato alcuna evidenza che la Repubblica Islamica stia lavorando alla realizzazione di un’arma atomica.

In ogni caso, la crisi costruita attorno al nucleare iraniano sembra destinata a sbloccarsi in qualche modo nel prossimo futuro, sia con un accordo o, più probabilmente, con un aggravamento dello scontro che potrebbe anche portare ad un nuovo rovinoso conflitto in Medio Oriente.

Come hanno scritto recentemente per il sito web di Al Jazeera gli analisti americani Flynt e Hillary Mann Leverett, infatti, ci sono già alcuni segnali che la politica delle sanzioni fin qui perseguita dall’amministrazione Obama e dall’Europa sia destinata a naufragare a causa delle sue stesse contraddizioni e di una più che dubbia legalità.

A sostegno della loro tesi, i due esperti di questioni legate alla Repubblica Islamica hanno indicato una recente sentenza del Tribunale della Corte Europea che ha annullato le sanzioni applicate da Bruxelles a due banche iraniane perché non erano state presentate prove sufficienti per dimostrare che gli istituti penalizzati avessero fornito “servizi finanziari ad entità legate al programma nucleare o alla costruzione di missili balistici”.

Inoltre, sempre secondo i Leverett, se la Casa Bianca e il Congresso dovessero insistere con l’adozione di sanzioni cosiddette “secondarie”, cioè applicate ad entità di paesi terzi che intrattengono relazioni commerciali con l’Iran, non è da escludere che i governi colpiti - a cominciare dalla Cina - possano denunciare Washington presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ottenendo con ogni probabilità un verdetto tutt’altro che favorevole per gli Stati Uniti.

In tal caso, perciò, agli USA non resterebbe che modificare drasticamente il proprio atteggiamento nei confronti dell’Iran, aprendo finalmente un vero dialogo che riconosca le legittime aspirazioni del governo di Teheran, oppure, assecondando le tendenze guerrafondaie di Israele, gettare l’intera regione mediorientale in nuovo conflitto dalle conseguenze incalcolabili.

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