di Michele Paris

A più di una settimana dalle esplosioni alla maratona di Boston, l’individuazione dei due presunti responsabili dell’attentato continua a sollevare parecchi dubbi e perplessità. Svariate rivelazioni della stampa hanno infatti dimostrato come l’FBI fosse da tempo a conoscenza dei fratelli Tsarnaev, confermando come un altro atto terroristico - reale o fabbricato - messo in atto negli Stati Uniti nell’ultimo decennio sia con ogni probabilità ancora una volta da attribuire a individui le cui attività, quantomeno, erano finite all’attenzione dell’apparato della sicurezza nazionale americana.

Per cominciare, il governo russo un paio di anni fa aveva richiesto all’FBI informazioni sul fratello maggiore - Tamerlan Tsarnaev, ucciso la settimana scorsa dalle forze di polizia USA - qualche mese prima di una sua visita ai familiari in Cecenia e in Dagestan perché sospettato di essere in contatto con la rete terroristica internazionale di matrice islamica.

Secondo l’FBI, la risposta alle autorità russe era stata inoltrata nell’estate del 2011 dopo che una ricerca tra i propri archivi non aveva evidenziato “alcuna attività terroristica, né sul fronte domestico né su quello estero”. Alcuni agenti sarebbero anche stati inviati a Boston con l’incarico di fare domande allo stesso Tamerlan e ad alcuni suoi familiari. I media russi hanno però scritto in questi giorni che i servizi di sicurezza di Mosca avevano nuovamente contattato l’FBI nel novembre scorso in merito al 26enne ceceno.

Soprattutto, la versione della polizia federale statunitense contrasta con quella fornita dai genitori dei due fratelli in un’intervista pubblicata nel fine settimana appena trascorso dal network Russia Today (RT). La madre, Zubeidat Tsarnaeva, ha infatti descritto frequenti contatti tra la sua famiglia e gli agenti dell’FBI, i quali avevano definito Tamerlan un “leader estremista” di cui temevano le attività”. Per la donna, dunque, i suoi due figli sarebbero stati “incastrati”, visto che il maggiore è stato “sotto il controllo dell’FBI per un periodo compreso tra i tre e i cinque anni”.

Il padre, inoltre, ha aggiunto che l’FBI aveva visitato la loro abitazione a Cambridge, nel Massachusetts, almeno cinque volte alla ricerca di Tamerlan, così da prevenire possibili “esplosioni nelle strade di Boston”.

Altri dubbi sul fatto che l’FBI fosse stato a conoscenza di possibili minacce terroristiche durante la maratona sono emersi in seguito a dichiarazioni come quella dell’allenatore della squadra di corsa campestre dell’Università di Mobile, nell’Alabama, che ha partecipato all’evento di lunedì scorso.

Quest’ultimo ha raccontato di aver visto svariati agenti con cani in grado di fiutare esplosivi sia alla partenza della maratona che sul traguardo, ma anche cecchini sui tetti degli edifici circostanti. Avendo partecipato a decine di maratone negli Stati Uniti e in Europa, l’allenatore ha definito come insolite queste misure di sicurezza, mentre gli agenti impegnati avevano cercato di rassicurare i partecipanti dicendo che si trattava soltanto di normali esercitazioni.

Questa testimonianza va considerata con la massima attenzione e potrebbe dare credito alla tesi di qualche commentatore che, soprattutto nei siti di news alternativi, ha fatto notare come negli ultimi anni l’FBI abbia condotto una lunga serie di operazioni per incastrare potenziali terroristi che, da soli, mai avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza nazionale.

In quelle che vengono definite “sting operations”, gli agenti federali individuano quasi sempre giovani disadattati appartenenti ad una minoranza etnica o religiosa e che hanno manifestato opinioni relativamente estremiste, per poi coinvolgerli in un complotto terroristico fornendo loro tutti gli strumenti necessari, compresi finti esplosivi. Simili operazioni hanno già portato a numerose pesanti condanne e, secondo alcuni, non è da escludere che in più di una circostanza l’esito finale possa essere risultato tutt’altro che inoffensivo per la sicurezza degli americani.

Ancora più inquietante è infine la ricostruzione fatta dal sito DebkaFile che vanta legami con l’intelligence e gli ambienti militari israeliani. Anche se spesso dall’attendibilità non esattamente indiscutibile, DebkaFile sostiene che i fratelli Tsarnaev erano agenti che stavano facendo il doppio gioco. Assoldati dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita per penetrare la rete jihadista Wahabita che si è diffusa nella regione del Caucaso russo, Tamerlan e il 19enne Dzhokhar avrebbero finito per tradire la loro missione, offrendo i loro servizi al terrorismo islamico.

Questa versione, a sua volta, ha il merito di ricordare gli effetti indesiderati dell’utilizzo delle reti terroristiche islamiche fatto dagli Stati Uniti, i quali le indicano alternativamente come il proprio nemico giurato oppure le sfruttano più o meno apertamente per raggiungere i propri obiettivi strategici. Nel caso del terrorismo ceceno, i cui affiliati stanno partecipando con l’appoggio americano al conflitto in Siria per rovesciare il regime di Assad, è ampiamente documentato il sostegno di Washington alle forze separatiste che negli anni Novanta hanno combattuto contro l’esercito russo.

Coloro che si aspettano qualche risposta ai dubbi sui fatti di Boston del 15 aprile scorso dall’interrogatorio di Dzhokhar Tsarnaev resteranno con ogni probabilità delusi. Il giovane accusato dell’attentato è tuttora ricoverato in condizioni critiche in un ospedale di Boston, dove agenti della sicurezza degli Stati Uniti gli starebbero però già ponendo domande sull’accaduto. Se il sindaco della metropoli del Massachusetts, Tom Menino, ha sostenuto che il giovane, viste le sue condizioni, potrebbe non essere mai più in grado di sostenere un interrogatorio, la ABC lunedì ha rivelato che Dzhokhar sarebbe “cosciente” e starebbe “rispondendo sporadicamente e per iscritto alle domande” postegli.

Al di là della sua capacità di esprimersi dopo le ferite riportate nello scontro a fuoco con la polizia prima della cattura, le risposte più significative di Dzhokhar Tsarnaev sono destinate a rimanere segrete. Infatti, l’amministrazione Obama ha deciso di negargli i cosiddetti “Miranda rights”, vale a dire i diritti garantiti dalla Costituzione di ottenere l’assistenza di un legale, il quale potrebbe rivelare pubblicamente il contenuto delle domande poste al sospettato, e di rimanere in silenzio, come stabilito da una sentenza della Corte Suprema del 1966 (“Miranda contro Arizona”).

Questa misura profondamente antidemocratica adottata dal presidente Obama poggia su un’altra sentenza del supremo tribunale americano emessa nel 1984 (“New York contro Quarles”) e viene giustificata dalle necessità di sicurezza nazionale in presenza di accuse legate ad attività terroristiche. Quella che dovrebbe rappresentare un’eccezione, si è però di fatto trasformata in un mezzo per svuotare la Costituzione stessa, dal momento che l’FBI è ormai autorizzato a continuare i propri interrogatori senza leggere ai detenuti i propri diritti anche per ottenere informazioni non collegate ad una minaccia imminente.

Dal Congresso americano, poi, stanno giungendo appelli di senatori e deputati repubblicani per definire Dzhokhar Tsarnaev come “nemico in armi”, così da consegnarlo alle autorità militari e, privato di tutti i diritti costituzionali, sottoporlo a detenzione indefinita. La Casa Bianca, tuttavia, ha fatto sapere di voler processare il giovane di origine cecena in un tribunale civile, dal momento che, come ha fatto notare lunedì il New York Times, “gli Stati Uniti sono impegnati in un conflitto armato con Al-Qaeda e non con ogni musulmano estremista” e “non ci sono prove che suggeriscano una sua affiliazione ad Al-Qaeda”.

Il trattamento dell’unico sospettato per i fatti di Boston non è che l’ennesima conferma del preoccupante deterioramento dei diritti democratici negli Stati Uniti in questi anni. Una situazione resa ancora più evidente dall’incredibile stato di assedio a cui è stata sottoposta la città di Boston e alcuni sui sobborghi la scorsa settimana durante l’operazione che ha portato all’uccisione di Tamerlan Tsarnaev e all’arresto del fratello.

Con la pressoché totale approvazione dei media ufficiali, più di un milione di persone sono state costrette a rimanere nelle loro case, mentre svariate abitazioni nella località di Watertown sono state sottoposte a perquisizioni arbitrarie senza alcun mandato di un giudice. Inoltre, nelle strade deserte il dispiegamento di forze di polizia, elicotteri, armi e mezzi pesanti per la cattura di un 19enne sembrava più adatto ad un teatro di guerra come Kabul o Baghdad che ad una città della East Coast statunitense.

Il senso di panico alimentato nella popolazione dalle autorità e dai media ha finito comunque per produrre un consenso diffuso per l’operato delle forze di polizia, tanto che, una volta conclusa l’operazione, per le strade di Boston in molti hanno festeggiato l’arresto di Dzhokhar Tsarnaev sventolando bandiere americane.

Una risposta all’attentato, quella messa in atto dal governo americano, che è sembrata in ogni caso assumere quasi i contorni di una prova generale di un’operazione su vasta scala in un contesto urbano volta a reprimere una rivolta popolare che, come è ben consapevole la classe dirigente di Washington, potrebbe esplodere in un futuro non troppo lontano a causa delle politiche anti-sociali messe in atto in questi anni per salvare il sistema capitalistico dalla crisi strutturale in atto.

Il pretesto della “guerra al terrore” e i metodi pseudo-legali adottati per combatterla da oltre un decennio, d’altra parte, hanno prodotto la militarizzazione della società americana e gettato le basi per la creazione di uno stato di polizia, assegnando al governo poteri senza precedenti per affrontare le minacce domestiche che si presenteranno con l’intensificarsi delle tensioni sociali nel paese.

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