di Michele Paris

Dopo una lunga e faticosa discussione, i ministri degli Esteri dell’Unione Europea nella serata di lunedì hanno di fatto deciso di dare il via libera alla fornitura di armi letali all’opposizione siriana a partire dalle prossime settimane. L’annullamento dell’embargo sugli equipaggiamenti militari, così come quello sul petrolio proveniente dai territori controllati dai “ribelli” deciso qualche settimana fa, contribuirà ad aumentare ulteriormente le violenze in Siria e a favorire il dominio dei gruppi legati al terrorismo islamista sunnita.

Il tutto proprio mentre il summit di Ginevra in fase di preparazione per cercare una soluzione negoziata alla crisi sta assumendo sempre più i contorni di uno strumento nelle mani di Washington per dare la spallata finale al regime di Bashar al-Assad.

Alla scadenza fissata per venerdì prossimo dell’embargo sulle spedizioni di armi deciso da Bruxelles nel 2012, dunque, i paesi più attivi nell’incoraggiare l’Unione Europea ad assumere una posizione più dura nei confronti di Damasco avranno facoltà di procedere senza alcun vincolo. A spingere in questo senso sono state soprattutto Gran Bretagna e Francia, appoggiate, una volta superate le perplessità espresse in precedenza, dalla Germania.

Contro la soppressione dell’embargo si sono invece espressi in particolare i governi di Austria, Svezia, Repubblica Ceca e Finlandia, ufficialmente preoccupati per la possibilità che le armi da inviare in Siria possano finire nelle mani di gruppi jihadisti. Simili scrupoli continuano ad essere espressi pubblicamente nonostante l’Unione Europea sia schierata fin dall’inizio della crisi a fianco della Turchia e delle monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico che, con la supervisione americana, finanziano e armano queste formazioni radicali, alimentando le violenze in Siria.

Senza un accordo unanime, l’UE avrebbe corso il rischio di vedere svanire anche le sanzioni economiche applicate alla cerchia di potere di Assad, così che queste ultime sono state alla fine separate dall’embargo sulle armi e approvate in tarda serata. L’esito del vertice di Bruxelles ha così prodotto uno scenario - definito nel corso della giornata di lunedì come una “catastrofe” per la politica estera UE dal ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselbon - nel quale ogni paese potrà decidere autonomamente sulla spedizione di “tecnologia militare” all’opposizione siriana.

In maniera informale, i ministri riuniti a Bruxelles si sarebbero comunque accordati per attendere fino al primo agosto prima di valutare l’opportunità di fornire armi ai “ribelli”, teoricamente per dare tempo al processo diplomatico in corso e che dovrebbe portare al summit “Ginevra II” entro la metà di giugno.

Il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha assurdamente sostenuto che la fine dell’embargo servirebbe perciò a favorire una soluzione politica della crisi, mentre più realisticamente il prossimo flusso di armi verso i “ribelli” siriani serve a riequilibrare le sorti del conflitto, nelle ultime settimane decisamente favorevole alle forze del regime anche grazie al supporto di Hezbollah sul campo e al sostegno militare di Russia e Iran.

Sempre nella giornata di lunedì, poi, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha incontrato a Parigi il suo omologo russo, Sergei Lavrov, ed esponenti del governo francese, ufficialmente per discutere dei preparativi della conferenza di Ginevra. A quest’ultimo evento Damasco ha annunciato la propria partecipazione tramite un comunicato del ministro degli Esteri, Walid al-Moallem, rilasciato domenica nel corso di una visita a Baghdad.

Più complicata appare invece la situazione nel campo avverso, dal momento che l’opposizione continua ad essere attraversata da profonde divisioni che impediscono la selezione di nuovi vertici graditi a tutte le fazioni che la compongono, nonostante i ripetuti inviti dei loro sponsor occidentali a creare una leadership presentabile alla comunità internazionale in vista di un maggiore impegno nella rimozione del regime.

Sull’incontro di Ginevra - promosso a inizio mese da Kerry e Lavrov - pesa comunque la principale condizione imposta esplicitamente dall’opposizione e indirettamente dagli USA, cioè le dimissioni di Assad prima di avviare un qualsiasi processo di transizione. Inoltre, da decidere sarà anche l’eventuale partecipazione dell’Iran, alla quale si oppongono in molti, a cominciare dalla Francia. Il ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, ritiene infatti Teheran un fattore destabilizzante nell’incerto processo diplomatico in atto.

La richiesta preventiva di escludere dal futuro della Siria una delle due parti - il presidente Assad, il cui regime è con ogni probabilità più popolare nel paese rispetto ai “ribelli” sostenuti dall’Occidente e dalle dittature sunnite mediorientali - e dalle trattative il principale alleato di Damasco (l’Iran) testimonia a sufficienza del singolare concetto di negoziato che sembrano avere i governi di Washington, Parigi e Londra, il cui obiettivo è chiaramente quello di utilizzare “Ginevra II” per imporre il proprio volere a Damasco o, in caso di fallimento, per compiere un ulteriore passo verso un intervento esterno in Siria.

Con la conferenza nella città elvetica già quasi morta in partenza, i preparativi per una nuova guerra in Medio Oriente avanzano senza sosta, nonostante qualche barlume di ripensamento e i timori diffusi un po’ ovunque in Occidente per il probabile prevalere di formazioni integraliste nel dopo Assad.

Uno dei maggiori falchi in politica estera del Congresso americano, il senatore repubblicano dell’Arizona John McCain, lunedì ha così attraversato il confine turco per recarsi in Siria accompagnato dal comandante del cosiddetto “Libero Esercito della Siria”, generale Salem Idris. Qui l’ex candidato alla Casa Bianca ha incontrato i leader di 18 milizie anti-Assad a cui ha promesso un maggiore impegno da parte degli Stati Uniti. Il blitz di McCain ricorda minacciosamente quello che lo vide protagonista in territorio libico nel 2011 alla vigilia della campagna imperialista guidata dal suo paese per rovesciare il regime di Gheddafi.

Negli ultimi giorni, inoltre, sono tornate a circolare anche le accuse dell’utilizzo di armi chimiche da parte del regime, un’eventualità definita lo scorso anno dal presidente Obama come una “linea rossa” che Assad non potrebbe oltrepassare senza incorrere in una qualche ritorsione militare. In particolare, la questione è riapparsa con la pubblicazione di un lungo articolo realizzato da Jean-Philippe Rémy di Le Monde dopo due mesi trascorsi come reporter “embedded” tra i “ribelli”. Secondo il giornalista francese, le forze fedeli ad Assad avrebbero usato gas tossici in misura limitata a Jobar, un sobborgo della capitale siriana, causando morti e feriti.

Queste accuse sono state immediatamente raccolte dal governo di Parigi, tanto che lo stesso ministro Fabius ha parlato di “sospetti crescenti” sull’uso di ordigni chimici, anche se ha poi ammesso che serviranno “verifiche molto scrupolose” per far luce sulle responsabilità. Alcune settimane fa, va ricordato, l’ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, aveva affermato che, in seguito all’indagine condotta dalla commissione delle Nazioni Unite sulla violazione dei diritti umani in Siria, erano emersi “forti e concreti sospetti, anche se non ancora prove incontrovertibili, sull’uso di gas sarin da parte dell’opposizione e dei ribelli, ma non da parte delle forze governative”.

Mentre si continua a cercare di fabbricare un motivo per scatenare un attacco contro la Siria, la Giordania ha fatto sapere un paio di giorni fa di essere in trattativa con “governi amici” per installare missili Patriot sul proprio territorio, come ha già fatto recentemente anche la Turchia.

A livello ufficiale, simili iniziative avrebbero uno scopo puramente difensivo, anche se in realtà i missili rientrerebbero nel quadro dell’implementazione di un’eventuale no-fly zone, i cui effetti devastanti si sono visti drammaticamente durante l’aggressione contro la Libia un paio di anni fa.

Proprio la Giordania, d’altra parte, gioca un ruolo fondamentale nelle mire occidentali sulla Siria, come conferma la presenza sul proprio territorio di almeno 200 soldati americani delle forze speciali, ma anche la recente rivelazione che Amman starebbe già concedendo a Israele di operare una propria flotta di droni nel suo spazio aereo per monitorare la situazione oltre il confine settentrionale in previsione di nuove incursioni aeree totalmente illegali.

Dietro la facciata dello sforzo diplomatico di Ginevra, insomma, le forze coalizzate per abbattere il regime di Assad continuano a preparare un nuovo rovinoso conflitto in cui rischiano di essere trascinati tutti i paesi della regione mediorientale. Il Libano, in particolare, appare sempre più vicino a ricadere nel baratro della guerra civile sull’onda degli eventi in Siria.

A testimonianza della situazione sempre più precaria in questo paese, domenica scorsa due missili sono caduti su edifici civili in un quartiere a sud di Beirut, considerato una roccaforte di Hezbollah, mentre martedì tre soldati dell’esercito libanese sono rimasti uccisi in una sparatoria presso un checkpoint nella Valle della Bekaa, non lontano dal confine con la Siria.

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