di Michele Paris

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso negli ultimi giorni tre sentenze decisive riguardanti i diritti delle coppie gay e le discriminazioni razziali nell’ambito delle leggi elettorali dei singoli stati. Nella giornata di mercoledì sono arrivati due verdetti salutati con grandissimo entusiasmo da politici e attivisti “liberal” e che hanno, da un lato, sancito l’incostituzionalità della legge federale che consentiva di godere dei benefici fiscali, sanitari e pensionistici alle sole coppie sposate eterosessuali e, dall’altro, dato il via libera alle nozze gay nello stato della California.

Con una maggioranza di 5-4, la Corte Suprema ha dunque cancellato una parte del Defense of Marriage Act (DOMA) del 1996, espandendo i benefici previsti dalla legge federale alle coppie dello stesso sesso unite in matrimonio in uno dei 12 stati americani che hanno legalizzato questa pratica. All’attenzione dei giudici non c’era invece la sezione della legge approvata durante la presidenza Clinton e che consente agli stati di non riconoscere i matrimoni gay celebrati in altri stati.

La seconda sentenza – ugualmente garantita da una maggioranza minima – non ha invece nemmeno affrontato il tema delle unioni tra persone dello stesso sesso ma, giudicando inammissibile il ricorso avanzato dai promotori del bando sulle nozze gay approvato dagli elettori della California nel 2008 (“Proposition 8”), ha confermato la precedente decisione di un tribunale di San Francisco che aveva dichiarato incostituzionale lo stesso divieto.

Nonostante l’enorme attenzione rivolta alle sentenze sui diritti gay dai media americani, è quella di martedì che avrà le implicazioni di gran lunga più importanti e preoccupanti. Questo verdetto vergognoso e difficile da giustificare legalmente ha di fatto abolito il cosiddetto Voting Rights Act (VRA), la legge che da quasi mezzo secolo cerca di impedire le discriminazioni razziali nell’esercizio del diritto di voto in alcuni stati americani.

Quella stessa Corte che, secondo alcuni, mercoledì avrebbe dato un impulso fondamentale ai diritti degli omosessuali, con una maggioranza risicata dei nove giudici (5-4) il giorno precedente aveva aggiunto un altro tassello all’opera di smantellamento dei diritti democratici universali portata avanti sotto la guida dall’attuale presidente (“Chief Justice”), John Roberts.

In discussione nel caso “Contea di Shelby contro Holder” era la costituzionalità delle sezioni 4 e 5 della legge approvata nel 1965 dal Congresso USA nell’ambito delle lotte del movimento per i diritti civili. Questo provvedimento era stato adottato per mettere fine alle discriminazioni nell’acceso al voto negli stati dove la segregazione razziale era la norma. Gli stati più problematici, secondo la legge, avrebbero così dovuto ottenere un permesso preventivo dal governo federale prima di modificare le proprie procedure di voto, usate appunto in molti casi per escludere le minoranze razziali dagli appuntamenti elettorali.

I giudici della Corte Suprema hanno dichiarato incostituzionale soltanto la sezione 4 del VRA, lasciando teoricamente intatta la sezione 5. Dal momento, però, che la sezione 4 identifica quegli stati sottoposti alla sorveglianza del governo di Washington in ambito elettorale, la sezione 5 – che riguarda il permesso preventivo che gli stati stessi devono richiedere per cambiare la loro legislazione – viene automaticamente svuotata.

A sostegno del VRA si è espresso più volte il Congresso americano negli ultimi cinque decenni con consensi bipartisan, tra cui più recentemente nel 2006, quando Camera e Senato prolungarono a larghissima maggioranza la sezione 5 per altri 25 anni. Sulla sezione 4, invece, l’ultimo voto al Congresso risale al 1975, quando vennero fissati i criteri per identificare gli stati, le contee e i comuni coperti dal VRA e quindi costretti ad ottenere un’autorizzazione federale per modificare le proprie leggi riguardanti ogni aspetto del processo elettorale.

Proprio il fatto che la definizione dei criteri di scelta risale a quasi 40 anni fa ha fornito ai cinque giudici di maggioranza della Corte Suprema la giustificazione per dichiarare incostituzionale la sezione 4 del VRA. Come ha spiegato il presidente Roberts, cioè, l’attuale sistema “è basato su fatti vecchi di 40 anni senza alcuna relazione logica con il presente”. In altre parole, secondo l’interpretazione dei cinque giudici ultra-conservatori della Corte (Roberts, Samuel Alito, Anthony Kennedy, Antonin Scalia, Clarence Thomas), le discriminazioni razziali in ambito elettorale che caratterizzavano alcuni stati americani a metà degli anni Settanta sono oggi quasi del tutto superate e le loro leggi in materia potranno d’ora in poi essere modificate senza il permesso del governo federale.

Dal momento che la realtà in molti stati coperti dal VRA appare tutt’altro che rosea, la maggioranza della Corte Suprema non ha completamente delegittimato il ruolo di controllo del governo sulle leggi elettorali locali. Infatti, la sentenza invita il Congresso ad approvare criteri più aggiornati per l’identificazioni degli stati e delle contee tuttora a rischio di discriminazione. Tuttavia, alla luce delle divisioni che caratterizzano Camera e Senato, nonché del vantaggio politico che deriverà soprattutto al Partito Repubblicano dalla sentenza di martedì, è praticamente impossibile che il Congresso USA possa riuscire ad esprimersi su questo argomento nel prossimo futuro.

Nella loro decisione, i cinque giudici di maggioranza non si sono curati di spiegare la contraddizione tra il presunto superamento delle discriminazioni razziali in moti stati americani e le prove schiaccianti del persistere ancora oggi di queste pratiche, come avevano ad esempio indicato ben 15 mila pagine di documenti presentati in occasione del voto al Congresso per il prolungamento del VRA nel 2006.

Il continuo intervento del Dipartimento di Giustizia negli ultimi anni per bloccare una lunga serie di leggi statali, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, volte a restringere l’accesso al voto - con provvedimenti che comprendono, tra l’altro, obblighi più onerosi per dimostrare l’identità di chi si reca alle urne, il riesame delle liste elettorali per escludere dal voto il maggior numero di persone possibile, la drastica limitazione del voto anticipato o per corrispondenza e la ridefinizione dei distretti elettorali per favorire un determinato partito - è poi un’ulteriore conferma del persistere delle discriminazioni in questo ambito.

Un recente studio del Brennan Center for Justice presso la New York University ha infatti elencato 86 modifiche alle leggi elettorali statali annullate dal governo federale negli ultimi 15 anni. Alcuni di questi interventi, consentiti grazie al VRA, hanno riguardato proprio la contea di Shelby, dalla quale è partita la causa all’attenzione della Corte Suprema, tra cui più recentemente nel 2008.

Ad esprimersi a favore del VRA sono stati i quattro giudici moderati della Corte: Stephen Breyer, Elena Kagan, Sonia Sotomayor e Ruth Bader Ginsburg. Quest’ultima ha redatto l’opinione dissenziente della minoranza utilizzando toni insolitamente duri nei confronti dei colleghi conservatori. Il membro più anziano del più importante tribunale americano ha anche smontato alcuni punti su cui il presidente Roberts ha basato la propria decisione di smantellare la legge.

Ad esempio, il giudice Ginsburg ha fatto notare come il VRA preveda già un meccanismo per svincolare i singoli stati dalla supervisione federale nel caso in cui essi non mettano in atto provvedimenti discriminatori per almeno dieci anni. La presunta necessità di trattare equamente ogni membro dell’Unione, senza creare categorie di stati buoni (esclusi dal VRA) e cattivi (coperti dal VRA), non ha infine senso, dal momento che le disparità di trattamento sono pratica comune nelle leggi federali, come ad esempio nelle misure di stanziamento di fondi in maniera differente da stato a stato o nell’approvazione di leggi che si applicano esclusivamente ad un singolo stato.

Le osservazioni del giudice Ginsburg contribuiscono perciò a confermare come la decisione di martedì non sia basata su fondamenta legali e razionali, bensì sia stata una decisione totalmente politica. Il verdetto, in definitiva, appare in aperta contraddizione con quanto contenuto nel Quindicesimo Emendamento della Costituzione americana, approvato nel 1870 all’indomani della Guerra Civile e che afferma che il “diritto di voto dei cittadini non può essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi Stato sulla base di razza, colore o precedenti condizioni di schiavitù”, nonché il potere del Congresso per “implementare questo articolo con apposita legislazione”.

Le conseguenze della sentenza di martedì sono subito risultate evidenti, con le autorità dello stato del Texas che hanno già annunciato di volere procedere con l’adozione di misure che erano state sospese in attesa del parere della Corte Suprema. Tra di esse c’è una legge che impone ad ogni elettore che si reca ad un seggio di esibire un documento identificativo valido, anche se molti residenti in località remote di questo stato dovranno percorrere fino a 400 chilometri per ottenerne uno nel caso fossero sprovvisti. Inoltre, il Texas potrà mettere in atto le modifiche ai distretti elettorali decise nel 2011 e bloccate dal governo grazie al VRA perché considerate discriminanti nei confronti dei votanti appartenenti a minoranze razziali.

Se gli attacchi al diritto di voto che verranno portati dopo il verdetto di martedì della Corte Suprema sembrano avere principalmente motivazioni razziali, il vero obiettivo della sentenza nel caso “Contea di Shelby contro Holder” e delle leggi discriminatorie che prolifereranno nei prossimi mesi è però quello di tenere lontano dalle urne il maggior numero possibile di cittadini appartenenti alle classi più povere al di là della loro etnia, come dimostrano i provvedimenti studiati o già messi in atto per rendere più onerosa la registrazione nelle liste elettorali.

Questa parte consistente della popolazione americana, che fa già segnare percentuali di voto molto contenute, è infatti colpita maggiormente dalle politiche anti-sociali della classe dirigente degli Stati Uniti e quindi potenzialmente più ostile nei confronti di quest’ultima rispetto ai ceti più agiati.

Ciò che ha consentito al supremo tribunale americano di demolire uno dei punti cardine delle lotte degli anni Sessanta del secolo scorso è in definitiva un ambiente democratico negli Stati Uniti in continua decomposizione, nel quale, tra l’altro, il governo è giunto ad auto-assegnarsi la facoltà di decidere arbitrariamente l’assassinio di chiunque venga indicato come una minaccia terroristica, di mettere sotto assedio intere città sospendendo le garanzie costituzionali dei loro abitanti o, come è stato rivelato nei giorni scorsi, di raccogliere e conservare segretamente informazioni sulle comunicazioni elettroniche di tutto il pianeta.

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