di Fabrizio Casari

Snowden va in Ecuador, anzi a Cuba, forse in Venezuela; macchè, è ancora a Mosca. L’agitazione intorno alla sorte dell’uomo più ricercato del momento si sposa con le illazioni e le ipotesi sui destini finali della sua fuga, dopo che ha bellamente beffato il suo governo riuscendo ad uscire dagli Stati Uniti, arrivare ad Hong Kong e poi giungere in Russia. E così, mentre il padre di Snowden tenta di negoziare con il governo USA un suo eventuale rientro, il possibile prossimo tour dell’ex analista della NSA in fuga sembra una gallery dei paesi ostili agli Stati Uniti.

Una sorta di cartina geografica di quella porzione di mondo che ha una propria politica estera, interna e di sicurezza nazionale, piuttosto che la connotata tendenza ad adempiere ai desiderata statunitensi. Si elencano infatti paesi che non riconsegnerebbero a Washington un uomo che nessun atto ostile ha commesso verso chi lo ospita ma che rischierebbe una condanna pesantissima nel suo paese.

Le notizie si rincorrono e, tra minacce e smentite, le dichiarazioni americane perseguono l’obiettivo dichiarato: esercitare pressioni fortissime verso chiunque pensi di offrire asilo politico al fuggitivo. Pechino invita Washington a tacere, visto che non si trova nelle condizioni d'impartire lezioni; Mosca dal canto suo ha già ricordato come Snowden sia in transito e che non ha nessun motivo per fermarlo, con ciò dicendo che qualora si presentasse con un lasciapassare diplomatico di qualunque paese, in termini di legge non avrebbe obiezioni a farlo imbarcare sul volo per la sua prossima tappa. Obama, che teme una frizione importante nelle relazioni con Cina e Russia e che sa distinguere le dimensioni di una crisi possibile, ha affermato che nessun aereo statunitense attaccherà in volo l’aereo che dovesse ospitare Snowden. Le residue minacce statunitensi sono quindi solo all’indirizzo dei paesi latinoamericani.

L’Ecuador, che la scorsa settimana era stato direttamente minacciato dal senatore USA Bob Menendez (un sottopancia della mafia cubano-americana della Florida) di revisione in negativo dell’accordo bilaterale di scambio preferenziale per alcuni prodotti alimentari, ha reagito con la sovranità e determinazione necessaria. Ieri mattina, infatti, Quito ha comunicato “la rinuncia unilaterale immediata ed irrevocabile” all’accordo commerciale con Washington. “L’Ecuador non accetta pressioni nè minacce da nessuno e non commercia con  i suoi principi nè li sottomette  a interessi mercantili per importanti che questi siano” ha indicato in una conferenza stampa il ministro della Comunicazione Fernando Alvarado.

Peraltro, va detto che l’accordo tra i due paesi (Aptea la sua sigla in inglese ndr) che ha come oggetto la collaborazione commerciale andina e la lotta contro la produzione di droga (in scadenza il 31 Luglio prossimo), seppur nato come ipotetico indennizzo alle nazioni andine, si é rivelato utile soprattutto agli Stati Uniti che l’hanno adoperato come strumento di ricatto. Ottima occasione quindi per Correa per ricordare agli Stati Uniti come non siano proprietari della sovranità equadoregna e come già in passato (in primo luogo nel mancato rinnovo della concessione per la base militare di Manta, poi nel 2011 con il caso dell’espulsione dell’ambasciatrice USA Heather Hodgesv, che nei cable diffusi da Wikileaks definiva la polizia dell’Ecuador “corrotta”, fino all’asilo politico di Assange nell’ambasciata di Quito a Londra) il suo governo non si sia fatto pregare nel rispedire al mittente ingerenze e minacce.

Mentre quindi si cerca di trovare la mossa decisiva nella partita a scacchi tra Washinton e mezzo mondo, ci si chiede quale potrebbe essere la prossima tappa della sua fuga. Certo che per gli Stati Uniti non si tratta solo di frustrazione e rabbia nei confronti di chi tanto danno ha recato al loro spionaggio; oltre ad esibire le numerose falle nel suo infallibile sistema che regge la sicurezza nazionale, in ballo c’è soprattutto la possibilità che chiunque offra aiuto a Snowden abbia da chiedere in cambio una collaborazione. Non si tratta di difesa dei diritti umani o di tutela della libera informazione, non scherziamo: si tratta della possibilità concreta di mettere le mani su una fonte straordinaria di analisi importantissime per qualunque intelligence.

Non tanto per quanto si potrà intercettare da ora in avanti, dal momento che le contromisure operative e tecnologiche per chiudere la falla alla NSA sono state già prese, ma capire la metodologia di lavoro, le verticali operative sulle quali si snoda l’organizzazione interna, l’accesso a fonti dirette e indirette esterne e interne e molto altro ancora qui inutile da elencare, offrirebbe ai servizi del paese che ospiterà una enorme possibilità di decriptare modalità e tecniche di lavoro della NSA che sarebbero funzionali alle contromisure necessarie per difendersi dallo spionaggio a stelle e strisce.

Si fanno paragoni con il caso Assange ma sono paragoni approssimativi. Il fondatore di Wikileaks ha avuto sen’altro il merito straordinario di documentare a tutto il mondo l’ipocrisia della politica estera statunitense, e i suoi legami poco consoni con alcuni parlamentari e dirigenti di partiti, membri delle comunità finanziarie e funzionari di governi internazionali, ma in fondo quello che ha denunciato non era ignoto a chi si occupa di politica estera con qualche avvedutezza ed attenzione.

Il caso Snowden, invece, è cosa assai diversa, perché pone all’ordine del giorno tanto le modalità di spionaggio degli Usa quanto il fatto che, a dispetto di ciò che i trattati militari internazionali vorrebbero, dimostrano come sia solo con la Gran Bretagna che gli USA condividono i maggiori segreti e come, insieme, esercitino attività pesantissime di spionaggio anche nei confronti di quegli alleati politici e militari con i quali condividono magari operazioni militari oltre che ipotesi di governante globale.

Perché che Washington decida di spiare Pechino e Mosca, Teheran e Islamabad, Caracas e L’Avana, e via elencando, può sembrare persino ovvio; ma che riservino lo stesso trattamento ai loro alleati, da Berlino a Madrid, da Parigi a Roma, questo proprio non lo si doveva sapere. Lo si poteva sospettare? Certo che sì, ma un conto è ipotizzare, un altro è verificare, un conto è persino saperlo, un altro è che tutto il mondo lo sappia.

Inoltre, spiare le riunioni dei vertici politici e militari, i negoziati finanziari e diplomatici dei paesi più importanti sulla scena mondiale, avvantaggia illegittimamente gli spioni sugli spiati e rende i negoziati stessi in qualche modo privi di senso, dal momento che preventivamente e nel corso degli incontri gli Stati Uniti sanno perfettamente le intenzioni, la disposizione e gli obiettivi di chi negozia con loro, alleati o avversari che siano.

Non sarà sui giornali o nelle conferenze stampa a seguito degli incontri ufficiali, ma è certo che i paesi oggetto dello spionaggio statunitense non mancheranno di far sentire la loro voce seccata. E si può esser certi che, almeno i paesi più degni, come la logica dell’intelligence internazionale vuole, cercheranno di restituire le attenzioni con gli interessi. E non sempre ci saranno attenzione mediatica e terminal aeroportuali ad ammortizzarne gli effetti.

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