di Fabrizio Casari

Ha deciso di attaccare, però ascolterà prima il Congresso. Parola di Barak Obama. Che significa, né più né meno, che o la decisione è sottoponibile a mutamento, o il Congresso non ha il potere di mutarla. Insomma la confusione regna sovrana alla Casa Bianca. Tra un Segretario di Stato e un Presidente che parlano prima di riflettere, gli Stati Uniti sono in difficoltà.

Più che la determinazione della Siria, sulla quale fanfaroneggia Assad, sono lo stop del Parlamento britannico alle ansie guerriere di Cameron e la decisione dell’Italia di attenersi alle risoluzioni delle Nazioni Unite  che lasciano Washington con il cerino in mano. Washington in Europa è sorretta solo dalla Francia, che però in Medio Oriente ha storicamente il riflesso incondizionato dei Mirage, in assenza di una politica.

Senza il consenso dell’Onu e della Lega Araba e non potendo utilizzare la Nato, l’appoggio della Turchia di Erdogan, di Israele e degli Emirati del Golfo ad un eventuale aggressione alla Siria non intacca, infatti, l’unilateralità della decisione statunitense. Obama si trova però in difficoltà: è andato troppo avanti per non lanciare i missili ma è in ritardo per quanto attiene alla capacità di reazione rapida ed alla capacità di costruire una coalizione che l’accompagni nell’avventura.

Coalizione che non sarà semplice da costituire. Le cosiddette prove che Kerry, emulando il Colin Powell che si prendeva gioco del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, spaccia senza pudore nelle ormai quotidiani incontri con la stampa, sono persino poco credibili sotto il profilo statistico e, con tutta evidenza, fanno parte della propaganda destinata ad ottenere il consenso dell’opinione pubblica statunitense. Che però al momento, al pari di quella europea, non ritiene affatto utile l’inizio di una nuova guerra mediorientale, possibile inizio di una tragedia di proporzioni più vaste ed effetti incontrollabili.

Gioca un ruolo decisivo, nella freddezza europea verso Washington, la consapevolezza di quanti e quali siano stati gli errori di Obama nell’appoggiare prima le cosiddette primavere arabe per poi accettare che fossero represse nel sangue, dal Barhein all’Egitto. Il risultato é che alla fine si è privato della stabilità l’insieme politico regionale ed aperto un quadro d’incertezza e di difficilissimi equilibri e tensioni che possono trasformare facilmente l’area in una polveriera.

Non sfugge del resto a nessuno che Mosca ritiene la caduta di Damasco una minaccia alla sua presenza nell’area e, di conseguenza, un diretto rinvigorimento della minaccia islamica fin nel Caucaso. La base russa di Taurus è ormai l’unico punto strategico per Mosca in una regione ormai ostile. Allo stesso tempo è perfettamente chiaro a Teheran come la caduta dell’alleato siriano - cui seguirebbe quella di Hezbollah in Libano - sarebbe destinata ad isolare e rendere più vulnerabile l’Iran, che si ritroverebbe così isolata e circondata.

Peraltro il regime iraniano non può permettersi di rimanere inerte mentre i suoi alleati ( e in qualche modo il suo cuscinetto difensivo esterno) vengono attaccati. Per lo Stato persiano significherebbe perdere ruolo regionale e credibilità interna ed internazionale e, con la messa a nudo dei suoi limiti politici e militari, comincerebbe il conto alla rovescia per la resa dei conti con Israele e Stati Uniti.

Quanto alle accuse statunitensi alla Siria, non s’intravvede un briciolo di coerenza. Non c’è nessuna questione relativa ai diritti umani che i carnefici di Guantanamo e delle renditions possono rivendicare, così come non può esserci credibilità in nessuna condanna all’uso di armi chimiche da parte di chi ha ordinato, nel corso della storia recente, l’uso indiscriminato di napalm e di fosforo bianco sulle popolazioni civili senza battere ciglio.

Altro che preoccupazioni umanitarie. L’attacco alla Siria si rende semmai inevitabile, per l’Occidente, a causa della situazione sul terreno, dove i ribelli sono in serie difficoltà militari e in preda ad una decisa divisione politica. La prima è determinata dalla controffensiva militare dell’esercito regolare di Assad che, aiutato dalle milizie degli Hezbollah libanesi, ha riconquistato città e punti strategici, interrompendo l’ampliamento delle zone conquistate e riducendo le roccaforti dei ribelli ad enclave. Il cammino verso Damasco da parte dei ribelli è al momento una pia illusione.

La seconda è il risultato dello sconto interno tra i ribelli dell’esercito libero siriano - sostenuto da britannici, americani e francesi - e le bande terroristiche (zeppe di mercenari venuti da tutta la regione e non solo) dirette da Al Nusra, emanazione diretta di al-Queda, e foraggiate dall’Arabia Saudita e dal Qatar, pure in conflitto tra loro per via della vicenda egiziana, con Ryad a sostegno di Al Sisi e il Qatar al lato di Morsi. Parte delle incertezze americane ed europee risiedono proprio qui; la parte del leone nella guerriglia la svolgono i quesiti e avvantaggiarli con un attacco devastante su aviazione e basi lealiste potrebbe rivelarsi a breve-medio termine un boomerang.

In questo quadro è plausibile ritenere che la anche la carta sempre considerata di ripiego, come la soluzione politica proposta da Damasco e costantemente rifiutata dai ribelli e dai loro sponsor, aldilà della propaganda del regime non avrebbe a questo punto senso, visti i mutamenti della situazione militare sul terreno che spingerebbero ormai Assad a ritenere la vittoria militare definitiva quale unica soluzione politica possibile.

E un’eventuale vittoria di Assad non solo avrebbe ripercussioni politiche importanti in tutta l’area, ma ricaccerebbe definitivamente indietro il progetto occidentale di appropriarsi della Siria allo scopo di utilizzarla come terreno sul quale far passare un oleodotto per la fornitura del gas alternativo a quello di marca russa, privando così Mosca di una sua centralità nelle forniture energetiche all’intera Europa.

Alla Casa Bianca, però, non si riesce a trovare una soluzione che spinga Assad nell’angolo e, contemporaneamente, non costringa Obama a fare la figura di un presidente velleitario. Come uscirne? O la commissione di esperti ONU riferisce di una totale assenza di prove contro Damasco per l’uso di armi chimiche, oppure un attacco dovrà partire. Ma come evitare d’incendiare tutta la regione? Si dovrà probabilmente a cercare una soluzione militare che dimostri come anche Obama sa osservare il ruolo di prefetto mondiale e, allo stesso tempo, a non affondare il colpo oltre la soglia accettabile per Assad che farebbe scattare una risposta generalizzata sul piano regionale.

In assenza dunque di un soprassalto di ragione da parte della Casa Bianca o di un pronunciamento netto da parte del Congresso Usa (che potrebbe voler mettere Obama alle corde), nell’impossibilità di vedere il presidente umiliato la risposta militare yankee arriverà. A questo si riferisce Kerry quando ricorda che, Congresso o no, il "comandante in capo" ha deciso. Forse però un attacco mirato, breve e non durissimo, consentirebbe ad Obama di sostenere che risposta c’è stata e, contemporaneamente, a far dire ad Assad che lui è il primo presidente arabo a saper resistere ad un attacco USA. Due attori per una brutta commedia di fine estate. Ma è meglio vedere un brutto film che assistere ad una guerra.


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