di Mario Lombardo

Le manovre e i discutibili colpi di mano messi disperatamente in atto alla vigilia delle elezioni generali di sabato scorso non sono servite al Partito Laburista australiano ad evitare una chiara sconfitta e il ritorno al potere del Partito Liberale in una coalizione di centro-destra. I risultati ufficiali hanno così decretato il netto successo di quest’ultima che potrà contare alla Camera bassa su una maggioranza di 85 seggi sui 150 totali contro i circa 54 ottenuti dai laburisti.

Negli ultimi tre anni il “Labor” è stato segnato da conflitti intestini che hanno prodotto due cambi al vertice del partito e del governo in seguito ad altrettanti golpe interni. Dapprima, nel 2010 Julia Gillard era riuscita ad estromettere l’allora primo ministro Kevin Rudd in un’operazione appoggiata da Washington per bloccare sul nascere i timidi sforzi del leader laburista di favorire una convivenza pacifica tra Stati Uniti e Cina in Estremo Oriente.

Successivamente, lo scorso mese di giugno lo stesso Rudd era stato clamorosamente riportato alla guida del partito di centro-sinistra e del governo di Canberra nell’estremo tentativo di evitare la prevedibile batosta alle urne. L’impopolare Gillard era stata così rimossa e sostituita con un leader che manteneva un qualche favore tra gli elettori soprattutto per le modalità anti-democratiche con cui era stato messo da parte tre anni prima.

Il crollo dei consensi per il Partito Laburista non è comunque legato esclusivamente agli eventi di questi ultimi anni. Come buona parte dei partiti di sinistra o centro-sinistra europei e nordamericani, anche il Labor australiano aveva visto crollare la propria credibilità tra la tradizionale base elettorale - lavoratori e classi più disagiate - già tra gli anni Ottanta e Novanta, con governi che avevano abbandonato i programmi di riforma sociale per mettere in atto politiche di liberalizzazione dell’economia.

Il ritorno al potere nel 2007 era stato dovuto perciò in gran parte alla profonda impopolarità del governo liberale-nazionale del premier John Howard, in particolare per il suo entusiastico appoggio alla “guerra al terrore” ideata dall’amministrazione Bush e la partecipazione alle invasioni di Afghanistan e Iraq. Nelle elezioni del 2010, infine, il Partito Laburista era riuscito a rimanere al potere creando un governo di minoranza la cui sopravvivenza è stata finora garantita da una manciata di parlamentari indipendenti.

Il premier uscente Rudd, in ogni caso, è riuscito a mantenere il suo seggio in Parlamento per lo stato del Queensland ma ha rapidamente riconosciuto la sconfitta a livello nazionale, sia pure meno pesante del previsto, e consegnato di fatto le redini del governo al leader del Partito Liberale, Tony Abbott.

Gli equilibri al Senato, invece, sono ancora tutti da verificare anche a causa di un complesso sistema elettorale. Il centro-destra australiano, però, dovrebbe avere una maggioranza meno netta nella Camera alta, dove oltretutto i nuovi eletti verranno insediati solo nel luglio del 2014.

Noto per le proprie posizioni estremamente conservatrici sulle questioni sociali, Abbott è stato per due volte ministro nei governi Howard e le descrizioni a lui riservate dai media internazionali non mancano di ricordare la sua ossessione per la forma fisica e gli studi in un seminario cattolico.

A dare una spinta decisiva alla sua candidatura è stata anche l’incessante campagna a suo favore e contro il Labor condotta dai giornali australiani facenti parte dell’impero mediatico di Rupert Murdoch. L’entusiasmo popolare per Abbott, d’altra parte, risulta estremamente limitato, come conferma il fatto che quasi tutti i sondaggi fino a pochi giorni dal voto indicavano livelli di gradimento superiori per Kevin Rudd nonostante l’avversione generale per il Partito Laburista.

In campagna elettorale, Abbott e il partner di coalizione dei liberali - il Partito Nazionale, tradizionalmente espressione dei proprietari terrieri - hanno promosso soprattutto due iniziative per la soppressione di altrettante misure adottate dal governo Gillard, la prima delle quali costantemente definita come “impopolare” dalla stampa ufficiale: una modesta quanto inefficace “super-tassa” sui profitti dei colossi estrattivi australiani e il mercato delle emissioni dei gas serra, ritenuto il più vasto al mondo dopo quello europeo.

Tra i punti centrali del suo programma elettorale, oltre alla riduzione del carico fiscale per la maggior parte delle imprese, c’è poi un costoso e controverso piano pubblico per finanziare permessi retribuiti dei genitori australiani fino ad un periodo di sei mesi e destinato ai redditi inferiori ai 135 mila dollari l’anno. Questo progetto è già stato fortemente criticato sia dalla comunità degli affari che da molti all’interno della coalizione di Abbott e finirà con ogni probabilità per essere messo rapidamente da parte.

Il già scarso appeal di Abbott tra la popolazione australiana fa prevedere infine una luna di miele particolarmente breve con gli elettori. Nelle scorse settimane, infatti, la pubblicazione di una serie di dati statistici ha prospettato un brusco rallentamento dell’economia del paese, scampata in gran parte alla crisi di questi anni grazie ad un vero e proprio boom estrattivo.

Quest’ultimo settore contribuisce per circa il 20% al prodotto interno lordo complessivo dell’Australia, impiega il 10% della forza lavoro e ammonta a oltre il 70% delle esportazioni. Il rallentamento della domanda cinese per le risorse del sottosuolo australiano ha già ridotto la crescita dell’economia al 2,6% su base annua nel mese di giugno, contro una crescita trimestrale media del 4% registrata nel corso del 2012.

Le previsioni indicano perciò una possibile recessione nel 2014, mentre la disoccupazione - attualmente al 5,7% - è destinata a salire in maniera significativa. Con queste prospettive, le voci che chiedono “riforme” per salvare i profitti delle grandi compagnie australiane si stanno moltiplicando e si tradurranno soprattutto in ulteriori misure di riduzione della spesa pubblica e di liberalizzazione del mercato del lavoro.

Sul fronte della politica estera, Abbott dovrà infine continuare a fare i conti con la contraddizione che ha caratterizzato gli anni del governo laburista, vale a dire la crescente dipendenza del business australiano dalla Cina e l’allineamento strategico del paese al tradizionale alleato americano.

Ad indicare possibili future tensioni con Washington è stata in questi giorni la presa di posizione del premier in pectore sull’imminente intervento militare in Siria, verso il quale Abbott ha mostrato maggiore freddezza rispetto a Rudd.

A livello generale, questa tornata elettorale in Australia è stata segnata dal continuo declino dei tradizionali partiti dell’establishment, evidenziato anche dal numero record di formazioni che hanno preso parte al voto. Secondo i dati della Commissione Elettorale, alla competizione di sabato hanno partecipato 54 partiti, contro i 24 del 2010, nonostante le complicate procedure fissate per la registrazione di un nuovo movimento politico.

Tra di essi, nelle elezioni federali era in corsa anche il Partito di WikiLeaks, costruito attorno alla popolarità del suo fondatore, Julian Assange, candidato per un seggio al Senato australiano. Il nuovo partito, anche a causa di scontri interni alla propria dirigenza, ha deluso le aspettative, ottenendo poco più dell’1% dei consensi su base nazionale. Lo stesso Assange, sempre costretto a rifugiarsi nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra, a conteggi ufficiali ultimati dovrebbe rimanere escluso da uno dei sei seggi in palio nello stato di Victoria dove aveva deciso di candidarsi.

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