di Michele Paris

A seguito della proposta lanciata dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per cercare di fermare l’aggressione militare americana contro la Siria, il governo francese ha annunciato martedì di volere trasformare l’ipotesi di porre l’arsenale chimico di Damasco sotto il controllo internazionale in una risoluzione da presentare al Consiglio di Sicurezza ONU. Le intenzioni di Parigi, però, non sono dirette ad evitare un nuovo conflitto in Medio Oriente, bensì a gettare basi teoricamente più solide per un intervento armato contro il regime di Assad, legittimato in apparenza da un mandato autorevole come quello delle Nazioni Unite.

A dare notizia del proposito della Francia è stato martedì il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, il quale ha fatto sapere che il governo Socialista redigerà un testo che, a suo dire, dovrebbe servire a “misurare le intenzioni” di Russia e Cina che, dopo avere finora impedito l’approvazione di qualsiasi misura per facilitare la rimozione di Assad, hanno dato la loro approvazione al piano sul monitoraggio delle armi chimiche siriane.

Come è noto, quest’ultimo era scaturito lunedì da una frase del segretario di Stato americano, John Kerry, che ha avuto conseguenze inaspettate. Rispondendo alla domanda di un reporter nel corso di una conferenza stampa a Londra, il capo della diplomazia USA aveva cioè affermato, con ogni probabilità in maniera retorica, che per evitare un attacco contro il proprio paese, Assad avrebbe dovuto “consegnare ogni sua arma chimica alla comunità internazionale entro la prossima settimana”.

Sul volo di ritorno dalla Gran Bretagna, Kerry è stato poi raggiunto telefonicamente dal suo omologo russo Lavrov che gli ha comunicato la nuova proposta, rivelata pubblicamente ancora prima dell’arrivo dell’ex senatore democratico negli Stati Uniti.

Con una mossa che ha allo stesso tempo messo in imbarazzo un governo di Washington sempre più in confusione e offerto una via d’uscita alla Casa Bianca quanto meno per ritardare un’operazione militare profondamente impopolare, Lavrov ha annunciato di volere lavorare con Damasco per studiare un meccanismo che porti l’arsenale siriano sotto la supervisione ONU, nonché alla sua distruzione finale.

Il piano russo è stato immediatamente accettato dal ministro degli Esteri di Assad, Walid al-Moallem, e poco dopo ha ricevuto da più parti una sostanziale approvazione, a cominciare da Teheran e Pechino ma anche da svariati governi occidentali dimostratisi molto cauti nei giorni scorsi nei confronti delle mire belliche statunitensi.

Le diverse motivazioni dietro l’accettazione della proposta Lavrov da parte di sostenitori e oppositori di Assad sono apparse però quasi subito evidenti, gettando più di un’ombra sulle probabilità di riuscita del piano.

Ciò è risultato chiaro proprio dalla presa di posizione di martedì del ministro degli Esteri francese Fabius, il cui proposito di ratificare con spirito bipartisan un piano apparentemente condiviso da tutte le parti in causa attraverso un voto ONU è stato contraddetto dal probabile contenuto che avrà la risoluzione a cui si sta lavorando a Parigi.

Il testo prefigurato da Fabius, infatti, dovrebbe finire per condannare ugualmente il “massacro del 21 agosto [a Ghouta, presso Damasco, con armi chimiche] commesso dal regime siriano” anche senza prove concrete della responsabilità di quest’ultimo.

Inoltre, se Assad non dovesse adeguarsi alle indicazioni contenute nella risoluzione, sarebbero previste “serie conseguenze”, cioè verrebbe giustificato l’uso della forza, come accadde al regime di Saddam Hussein nonostante la collaborazione mostrata con gli ispettori ONU alla ricerca di armi di distruzione di massa in Iraq.

In sostanza, la Francia e l’Occidente in generale sarebbero pronti a sfruttare ogni possibile controversia o incertezza nel processo di smantellamento dell’arsenale bellico siriano per puntare il dito contro un regime non disposto a collaborare con la comunità internazionale, così da avere la copertura necessaria per condurre un’operazione militare volta al cambio di regime che Parigi e Washington stanno faticando in questi giorni a giustificare.

Tale eventualità, anche dando per scontato che Damasco e i vari governi coinvolti riescano a raggiungere un difficile accordo, sembra tanto più probabile quanto appare complesso e pieno di ostacoli il processo di individuazione, catalogazione e trasferimento delle armi chimiche in possesso di Assad.

Se, inoltre, le condizioni imposte dall’Occidente per intraprendere un percorso di questo genere dovessero prevedere il passaggio attraverso una risoluzione ONU come quella prospettata dal ministro francese Fabius, Russia e Cina ricorrerebbero con ogni probabilità al loro diritto di veto, facendo naufragare l’intero progetto.

L’obiettivo immediato dell’amministrazione Obama, in ogni caso, sembra essere quello di impedire che il processo messo in moto dalle parole incaute di Kerry finisca per togliere l’opzione militare dal dibattito in corso sulla Siria. Inizialmente, addirittura, dal Dipartimento di Stato erano giunte tempestive rettifiche alla frase del Segretario per chiarire come l’ipotesi che Assad consegni le proprie armi chimiche per evitare la guerra fosse puramente “retorica”.

In seguito alla mossa di Lavrov, tuttavia, questa proposta è diventata in fretta la notizia del giorno, con politici ed esponenti di governi di mezzo mondo che hanno espresso almeno la loro disponibilità a valutare un accordo con Damasco negoziato dal Cremlino.

Numerosi membri del Congresso americano, ad esempio, hanno preso la palla al balzo manifestando il loro ottimismo per una soluzione pacifica, soprattutto coloro che sembravano intenzionati a votare contro la richiesta di autorizzazione all’uso della forza in Siria e che temevano di essere criticati dalla Casa Bianca per non avere saputo rispondere in maniera ferma ad un presunto attacco con armi chimiche.

Lo stesso presidente Obama, alla fine, ha preso atto della nuova situazione e nella serata di lunedì ha anch’egli definito “fattibile” la proposta Lavrov. L’inversione di marcia del presidente è giunta significativamente al termine di una giornata trascorsa nel tentativo di convincere i “congressmen” americani ad approvare l’aggressione contro la Siria e alla sua frenata deve avere contribuito anche la pubblicazione di ulteriori sondaggi sui media americani che hanno evidenziato nuovamente la freddezza della popolazione per un’altra guerra imperialista nascosta dietro motivazioni umanitarie.

Obama ha comunque tutt’altro che abbandonato i propositi di guerra, tanto che alla CNN ha chiarito come un accordo accettabile sulle armi chimiche di Assad possa essere raggiunto solo mantenendo viva la “minaccia militare” contro Damasco.

Il primo effetto concreto dell’ipotesi circolata lunedì è stato così il rinvio del voto previsto per mercoledì al Senato americano sull’autorizzazione all’uso della forza in Siria secondo il testo approvato settimana scorsa dalla commissione Esteri.

Ad annunciarlo è stato il leader democratico di maggioranza, Harry Reid, dopo avere incassato nel corso della giornata alcune defezioni di compagni di partito contrari alla guerra e in previsione di una umiliante sconfitta per Obama nel ramo del Congresso dove i numeri sembravano essere più favorevoli alla Casa Bianca.

Gli sforzi del governo americano per giungere ad un intervento militare non saranno comunque interrotti nei prossimi giorni, durante i quali è facile prevedere l’insorgere di “complicazioni” al piano Lavrov o di novità sul campo che accelererebbero nuovamente i preparativi di guerra.

La propaganda di Washington, perciò, non sembra dover cessare in seguito ai nuovi sviluppi favoriti dalla Russia, come ha confermato lunedì la consigliera per la sicurezza nazionale di Obama, il falco degli interventi umanitari Susan Rice. In un intervento presso il think tank "New America Foundation", quest’ultima ha infatti ribadito la necessità di un’aggressione militare contro la Siria facendo riferimento cinicamente ai bambini morti nell’attacco a Ghouta del 21 agosto condotto con buone probabilità proprio dai “ribelli” appoggiati dall’Occidente.

Nella stessa uscita pubblica, l’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite ha inoltre affermato che l’uso di armi chimiche deve essere punito anche perché potrebbe diventare “una minaccia diretta per il nostro principale alleato nella regione”, vale a dire Israele.

Curiosamente, queste ultime parole della Rice sono giunte poco dopo la rivelazione da parte del network Russia Today di una possibile nuova provocazione dei “ribelli” siriani, i quali starebbero valutando l’ipotesi di lanciare un attacco con armi chimiche contro Israele da località sotto il controllo del regime, così da far ricadere ancora una volta la colpa su Assad e spianare definitivamente la strada verso una guerra totale nel paese mediorientale.

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