di Michele Paris

Tra i più accesi sostenitori della presunta battaglia per la democrazia in corso da oltre due anni in Siria spicca uno dei principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente: il regno Wahabita dell’Arabia Saudita. Se la monarchia assoluta del Golfo Persico continua ad operare attivamente per rimuovere un regime, come quello di Assad, da loro definito dittatoriale e intento a reprimere senza scrupoli la propria popolazione, le condizioni politiche, sociali e giudiziarie del regno non collocano certo il secondo produttore di petrolio del pianeta tra i modelli democratici. Ciononostante, il regime saudita continua ad essere tra i meno esposti alle pressioni internazionali per migliorare il rispetto dei diritti umani entro i propri confini.

A mettere in piazza una delle scomode realtà del sistema saudita, così come l’ipocrisia della retorica occidentale in merito alla promozione dei valori democratici, è stato un reportage pubblicato questa settimana dal quotidiano libanese Al Akhbar. Nel lungo articolo si cerca di fare luce su alcuni dei meccanismi repressivi del regime di Riyadh attraverso un’indagine sui detenuti politici che popolano le carceri del regno.

Le difficoltà incontrate dall’autore della ricerca sono state molteplici a causa della chiusura del paese mediorientale e dell’estrema segretezza con cui vengono attuate le politiche relative alla “sicurezza nazionale”. In primo luogo, è tutt’altro che certo il numero di prigionieri politici attualmente ospitati nelle carceri saudite. Svariati resoconti giornalistici indicano numeri estremamente diversi, che vanno dai duemila ai 40 mila detenuti, anche se alcuni attivisti locali stimano un totale di oltre 30 mila.

Waleed Abu al-Khair, fondatore dell’organizzazione indipendente Monitor of Human Rights in Saudi Arabia, afferma che è impossibile conoscere il numero esatto, poiché in questo paese esistono numerose carceri segrete. Inoltre, le informazioni sui detenuti vengono tenute nascoste non solo alle associazioni umanitarie ma spesso anche ai loro stessi familiari.

Secondo le autorità saudite, i detenuti politici sarebbero poco più di 2.300 e, ovviamente, essi non sono classificati come tali ma considerati indistintamente “terroristi”. Secondo al-Khair, coloro che effettivamente avrebbero legami con al-Qaeda o altre organizzazioni fondamentaliste violente sono solo una parte dei detenuti e nemmeno la più numerosa. Oltre a costoro ci sono infatti almeno altre due categorie di detenuti e cioè i “riformisti” - che si battono per la creazione di una monarchia costituzionale - e gli attivisti per i diritti umani. Le autorità, in definitiva, “non sostengono mai di avere arrestato riformatori o attivisti per i diritti umani, bensì sempre terroristi”.

Oltre a nascondere la costante repressione ai danni di chiunque venga percepito come una minaccia al regime, l’apparenza di una lotta condotta esclusivamente contro il terrorismo islamista serve anche ad occultare i legami quanto meno ambigui che Riyadh mantiene con i gruppi fondamentalisti stessi, di fatto appoggiati e finanziati nelle loro attività in paesi stranieri per promuovere gli interessi del regno, come in Cecenia o in Siria.

Nella ricostruzione fatta da Al Akhbar delle politiche per la “sicurezza nazionale” saudite emerge come una buona parte dell’attuale popolazione carceraria del paese sia stata arrestata un decennio fa, in particolare in seguito all’esplosione di una ribellione interna, mentre solo negli ultimi anni è stato creato un apposito apparato pseudo-legale culminato nelle recenti leggi “anti-terrorismo”.

La monarchia saudita deve fare i conti soprattutto con la persistente inquietudine che attraversa le proprie province orientali dove vive una consistente e repressa minoranza sciita e dove si trovano ingenti giacimenti petroliferi. Il timore del contagio a queste zone delle proteste scoppiate nel 2011 nel Bahrain spinse anche il governo di Riyadh a inviare le proprie forze armate nel paese vicino per reprimere nel sangue la ribellione contro la casa regnante sunnita.

Tra le poche notizie che filtrano dall’Arabia Saudita, negli ultimi mesi ce ne sono state alcune che hanno confermato come la repressione del dissenso prosegua senza soste. Solo nel corso dell’estate, ad esempio, sette attivisti locali sono stati condannati fino a dieci anni di carcere per avere espresso le proprie opinioni sui social media. Tra le vicende riportate dalla stampa, vanno ricordate anche quelle di alcuni noti difensori dei diritti umani finiti agli arresti, assieme a decine di manifestanti che lo scorso mese di luglio chiedevano notizie sui loro familiari in carcere, spesso senza processo o addirittura dopo avere già scontato la loro pena.

La mano pesante delle autorità saudite si è fatta sentire specialmente dopo la diffusione in molti paesi mediorientali e nordafricani della cosiddetta “Primavera araba” nei primi mesi del 2011. Per prevenire contestazioni sul proprio territorio, le forze di sicurezza hanno così intensificato la repressione, soffocando sul nascere e in maniera violenta qualsiasi manifestazione di protesta e arrestando chiunque fosse anche solo sospettato di avere criticato il regime o avesse chiesto pacificamente delle riforme per il paese.

In Arabia Saudita è comunque la situazione generale dei diritti umani ad essere estremamente preoccupante. Svariati rapporti di organizzazioni internazionali hanno messo in luce in questi anni come nel regno siano diffuse, tra l’altro, violenze e discriminazioni contro le donne, traffico di persone, violazioni sistematiche dei diritti dei minori ma anche dei lavoratori e della libertà religiosa.

Di fronte all’evidenza di questa inquietante macchina della repressione, l’Arabia Saudita non viene punita in nessun modo dalla comunità internazionale. Al contrario, grazie soprattutto alle proprie riserve petrolifere e al ruolo di garante degli interessi occidentali in Medio Oriente, essa figura tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti e dei governi europei. Oltre a garantire a Riyadh puntuali forniture degli armamenti più sofisticati, Washington ostenta spesso la partnership con il regno nell’ambito delle proprie campagne imperialiste nascoste dietro la retorica umanitaria e dei diritti democratici, come è avvenuto in Libia e sta avvenendo in Siria.

Secondo l’autore dell’indagine di Al Akhbar, nonostante sia ampiamente nota la situazione delle libertà politiche e sociali nel regno Wahabita, quest’ultimo gode del raro privilegio di non ricevere praticamente alcuna critica da parte dei governi occidentali, potendo così non solo “violare impunemente norme e convenzioni internazionali”, ma anche “svolgere in maniera aggressiva un ruolo di spicco nel condannare altri paesi della regione per i loro abusi”.

Infatti, come ha spiegato alla stessa testata libanese il ricercatore di Human Rights Watch per l’Arabia Saudita e la Giordania, Adam Coogle, tutto quello che il Dipartimento di Stato americano o l’Unione Europea esprimono nei confronti delle pratiche repressive di Riyadh è al massimo “preoccupazione” ma mai un’esplicita condanna.

Per Sevag Kechichian di Amnesty International, infine, i motivi della “copertura” garantita dagli USA e dai loro alleati all’Arabia Saudita sono chiarissimi e hanno a che fare “con il petrolio, con l’influenza esercitata nella regione e con la stretta partnership che la lega all’Occidente fin dai tempi della Guerra Fredda”. Questi sono alcuni dei motivi principali per cui una monarchia assoluta e oscurantista come quella saudita, qualsiasi abuso commetta, continua ad essere a tutt’oggi “praticamente intoccabile”.

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