di Michele Paris

Nonostante l’impegno messo in atto dall’amministrazione Obama e le fortissime pressioni provenienti da Washington, il colossale e minaccioso trattato di libero scambio trans-pacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP) fortemente voluto dagli Stati Uniti sta incontrando un’opposizione crescente non solo tra un’opinione pubblica che comincia solo ora a conoscere alcuni dei contenuti dell’accordo ma anche tra i governi che dovrebbero sottoscriverlo nelle prossime settimane.

La Casa Bianca aveva fissato la fine dell’anno come scadenza per l’approvazione del TPP ma le resistenze al Congresso e il mancato raggiungimento di un’intesa definitiva tra i paesi che ne dovrebbero far parte nel corso di un recente summit a Singapore hanno fatto allungare i tempi previsti.

I negoziati dovrebbero riprendere a gennaio, anche se il dibattito pubblico appena iniziato contro il volere del governo USA e delle parti che dovrebbero maggiormente beneficiarne - grandi banche e corporations, soprattutto americane - potrebbe complicare i piani di Obama di mandare in porto un trattato di ampio respiro dietro le spalle di centinaia di milioni di persone che, sulle due sponde del Pacifico, finiranno per pagarne interamente le conseguenze.

Il TPP era nato quasi un decennio fa come un progetto di trattato di libero scambio tra Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore, per poi allargarsi negli anni successivi ad altri otto paesi con i quali i primi quattro ne stanno appunto negoziando la versione definitiva (Stati Uniti, Canada, Messico, Perù, Australia, Giappone, Malaysia e Vietnam). Recentemente, anche Corea del Sud e Taiwan hanno manifestato il loro interesse a partecipare al trattato.

Se l’obiettivo ufficiale del TPP dovrebbe essere quello di creare una grande area di scambi commerciali priva di tariffe nazionali per dare un impulso alle economie dei paesi interessati, i veri scopi sono in realtà quelli di consegnare alle grandi compagnie trans-nazionali un altro strumento formidabile per superare qualsiasi autorità nell’ampliamento dei propri profitti e, per gli Stati Uniti, di provare a isolare Pechino rafforzando i legami commerciali con alcune delle principali economie asiatiche.

Il TPP, inoltre, in caso andasse a buon fine, servirebbe da modello per altri trattati simili - come quello in discussione tra USA e UE - destinati a smantellare le rimanenti protezioni contro lo strapotere del capitale privato.

Le questioni affrontate dal TPP, in ogni caso, vanno ben al di là degli scambi commerciali ed includono, tra l’altro, anche il delicato tema del diritto d’autore e della proprietà intellettuale. Quest’ultimo aspetto, assieme alle opinioni divergenti emerse nel corso dei negoziati tra i dodici paesi aderenti al trattato, era stato messo in luce lo scorso mese di novembre da alcuni documenti pubblicati da WikiLeaks.

Che all’organizzazione fondata da Julian Assange debba essere attribuito l’indubbio merito di avere rivelato una parte dei contenuti del TPP è dovuto al fatto che le trattative continuano a svolgersi in maniera segreta quasi unicamente tra i governi e i rappresentanti di banche e corporations, mentre le popolazioni e, spesso, gli stessi parlamenti nazionali ne sono tenuti all’oscuro.

Tra le misure previste sulla proprietà intellettuale, così, ce ne sono alcune che, ad esempio, garantirebbero alle grandi compagnie farmaceutiche una sorta di monopolio a lungo termine sui brevetti, limitando in maniera drastica la possibilità da parte dei governi di accedere ai medicinali generici.

Il TPP favorirebbe di fatto anche una sorta di censura del web, dal momento che, secondo le proposte di Stati Uniti e Australia, i provider di servizi internet dei vari paesi potrebbero essere costretti a bloccare o monitorare l’accesso alla rete su richiesta delle corporation in caso queste ultime dovessero individuare una violazione dei diritti d’autore sui propri prodotti.

Ugualmente inquietanti sono poi le disposizioni che permetterebbero alle multinazionali di avviare azioni legali contro leggi e regolamentazioni dei paesi in cui esse hanno investito e che in qualche modo minacciano i loro profitti. A sentenziare su tali casi non sarebbero i giudici di un determinato paese, bensì un organo internazionale che agirebbe al di fuori del sistema legale del paese stesso.

Come ha precisato l’economista Marc Weisbrot in un recente commento apparso sul Guardian, le corporation potranno denunciare direttamente i governi, come già è previsto attualmente dal Trattato di Libero Scambio Nord Americano (NAFTA) e al contrario invece delle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), secondo le quali deve essere obbligatoriamente un governo terzo ad intentare una causa di questo genere.

Tra le altre disposizioni previste dal TPP, vanno ricordate anche quelle che richiedono la sostanziale distruzione dei monopoli pubblici nei paesi firmatari dell’accordo, nonché l’allentamento delle protezioni per i lavoratoti e delle misure di regolamentazione ambientale e del settore finanziario. Il tutto, ancora una volta, per garantire mano libera alle grandi aziende private che aumenteranno il loro impegno nei paesi coperti dal trattato.

Queste ed altre misure controverse stanno però creando non poche frizioni tra gli Stati Uniti - definiti da alcuni negoziatori come “inflessibili” nel promuovere quelle condizioni che porterebbero vantaggi enormi per le proprie corporations - e gli altri paesi aderenti al TPP.

Il Giappone, ad esempio, teme che la soppressione delle tariffe che applica sulle importazioni agricole possa mettere in crisi il proprio settore primario dove, oltretutto, il Partito Liberal Democratico al governo trova la sua principale base elettorale. Tokyo, infatti, nonostante l’insistenza americana, aveva deciso di partecipare ai negoziati per il TPP solo nel marzo di quest’anno, superando sia pure a stento le tradizionali preoccupazioni espresse dalla propria classe rurale nei confronti dei trattati di libero scambio.

La Malaysia e il Vietnam, a loro volta, non sembrano voler cedere sulle privatizzazioni, visto che le aziende pubbliche in entrambi i paesi svolgono un ruolo fondamentale nelle loro economie, rappresentando, rispettivamente, la metà della capitalizzazione di borsa e il 40 per cento del PIL nazionale. Quasi unica eccezione è invece l’Australia del neo premier conservatore Tony Abbott, il quale ha finora assecondato pressoché ogni condizione imposta da Washington.

Negli Stati Uniti, intanto, per evitare una sia pur minima discussione pubblica sul TPP e per limitare al massimo le fughe di notizie relative ai contenuti, l’amministrazione Obama ha chiesto al Congresso di mettere in atto una procedura definita “Fast Track”, la quale si usa da quasi quarant’anni per arrivare ad un’approvazione rapida e senza intoppi dei trattati commerciali negoziati dal governo e quasi sempre profondamente impopolari. Grazie a questo espediente, Camera e Senato sono chiamati ad approvare il trattato in questione senza possibilità di discutere emendamenti.

Tuttavia, alla luce della crescente opposizione popolare dopo le rivelazioni di WikiLeaks e di altre testate giornalistiche, ma anche del tradizionale scetticismo per questo genere di accordi dell’ala libertaria del Partito Repubblicano, la garanzia del “Fast Track” al Congresso appare oggi tutt’altro che scontata per la Casa Bianca.

Circa un mese fa, addirittura, 151 deputati democratici e 23 repubblicani avevano indirizzato una lettera ai negoziatori americani del TPP per manifestare la loro opposizione al “Fast Track” nel caso del TPP. Oltre alle ragioni di natura ideologica, molti parlamentari di entrambi gli schieramenti sono preoccupati per la più che probabile perdita di posti di lavoro nei loro distretti elettorali in seguito all’abbattimento delle tariffe doganali sui prodotti stranieri che entreranno negli USA dopo la firma del trattato.

Per il presidente Obama, perciò, sembra sempre più probabile il materializzarsi dell’incubo di una maggioranza trasversale alla Camera dei Rappresentanti tra democratici “liberal” e repubblicani vicini ai Tea Party, la quale potrebbe aprire un qualche dibattito sul TPP, portando a modifiche indesiderate se non addirittura all’arenarsi del trattato stesso, nonché, soprattutto, facendo finalmente conoscere agli americani e al resto del mondo le gravissime conseguenze che esso comporterebbe in caso di approvazione.

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