di Mario Lombardo

Le ultime ore del 2013 e le prime del nuovo anno sono state segnate da gravi tensioni in almeno tre paesi dell’Asia sud-orientale dove crisi e contraddizioni interne si trascinano irrisolte ormai da tempo. Se la Thailandia è da settimane nel caos a causa delle prolungate proteste dell’opposizione contro il governo in carica, in Malaysia e Cambogia sono tornati a esplodere gli scontri dopo la calma apparente seguita alle controverse elezioni andate in scena nei mesi scorsi.

Mercoledì la Commissione Elettorale thailandese ha messo seriamente in dubbio la possibilità di tenere elezioni anticipate il 2 febbraio prossimo, come deciso dal governo dopo lo scioglimento del Parlamento. Un possibile rinvio sarebbe dovuto alla mancata registrazione dei candidati per almeno il 95% dei seggi della camera bassa. Ciò è stato causato dalle proteste dei manifestanti che stanno cercando di impedire l’accesso agli edifici deputati alla registrazione delle candidature.

Le tensioni nel paese erano poi aumentate ulteriormente la scorsa settimana, con i sostenitori dell’opposizione che erano stati protagonisti di violenti scontri con le forze di polizia. A mandare segnali inquietanti al governo era stato anche il potente comandante dell’esercito thailandese, generale Prayuth Chan-ocha, il quale si era rifiutato di escludere un intervento dei militari per risolvere la crisi. L’ultimo colpo di stato delle forze armate in Thailandia era avvenuto nel 2006, quando venne deposto il primo ministro, Thaksin Shinawatra, fratello dell’attuale premier, Yingluck.

Il timore di un’iniziativa dei militari, i quali nelle scorse settimane avevano ufficialmente appoggiato la soluzione elettorale, continua ad agitare il governo di Bangkok, tanto che lo stesso primo ministro è tornata mercoledì nella capitale dopo due settimane trascorse nel nord del paese. Giovedì, Yingluck ha così chiesto ai militari di appoggiare la Polizia nel ristabilire l’ordine se i manifestanti, guidati dall’ex vice-premier del Partito Democratico di opposizione, Suthep Thaugsuban, dovessero mettere in atto la minaccia di paralizzare Bangkok nei prossimi giorni.

Di fronte a quest’ultima eventualità, sempre giovedì il capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale militare, Paradorn Pattanatabut, ha affermato che le forze armate starebbero considerando la possibilità di dichiarare lo stato di emergenza. L’opposizione è animata dal Partito Democratico, dagli ambienti reali e da una borghesia urbana che si sente minacciata da un decennio di politiche populiste e di modeste riforme sociali sotto la guida dei governi di Thaksin e dei suoi sostenitori.

Di fronte ad una quasi certa sconfitta elettorale, l’opposizione chiede non solo le dimissioni immediate del premier Yingluck ma anche la creazione di un anti-democratico “consiglio popolare” non eletto per decidere le sorti del paese e “sradicare” l’influenza del clan Shinawatra dalla Thailandia.

L’incapacità del governo di mettere fine alla crisi scaturita dal tentativo nel mese di novembre di fare approvare modifiche alla Costituzione e un’amnistia che avrebbe consentito il ritorno in patria dell’ex premier Thaksin, ora in esilio volontario a Dubai per sfuggire ad una condanna per corruzione e abuso di potere a suo dire politicamente motivata, sta creando non poche apprensioni nel paese.

I giornali in questi giorni continuano infatti ad insistere sul continuo rallentamento dell’economia, sulla fuga dei capitali stranieri e sul crollo della moneta thailandese (Baht). In questo scenario, quella militare sembra essere la soluzione preferita da parte dei tradizionali centri di potere che stanno dietro le proteste, anche se le forze armate continuano a temere le conseguenze di un intervento che scatenerebbe ancor più il caos nel paese in seguito alla pressoché certa mobilitazione dei sostenitori del clan Shinawatra.

Oltre il confine meridionale thailandese, anche in Malaysia la fine del 2013 ha visto il ritorno in piazza di attivisti anti-governativi. La sera del 31 dicembre, tra 15 e 25 mila manifestanti hanno causato l’interruzione dei festeggiamenti per il nuovo anno in corso in una piazza della capitale, Kuala Lumpur, provocando l’intervento delle forze di polizia.

Qui, le proteste sono seguite all’annuncio da parte del primo ministro, Najib Razak, di volere aumentare il prezzo della benzina, dello zucchero e di altri beni di prima necessità per cercare di ridurre il debito del paese, come richiesto dagli ambienti finanziari internazionali.

Ai gruppi di protesta soprattutto studenteschi si sono uniti in questi giorni esponenti della principale formazione politica dell’opposizione che, dopo le elezioni di maggio, aveva tentato senza successo di dare una spallata al regime della coalizione Barisan Nasional (Fronte Nazionale, BN), in diverse forme al potere in Malaysia fin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1957.

Il voto aveva provocato accese proteste, soprattutto perché i partiti che appoggiano il governo avevano ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi pur risultando in minoranza relativamente ai consensi espressi su scala nazionale. L’opposizione del Pakatan Rakyat (Alleanza Popolare, PR) dell’ex premier Anwar Ibrahim era riuscita a capitalizzare il malcontento diffuso per i metodi autoritari impiegati dal regime e le tradizionali discriminazioni nei confronti delle minoranze indiana e cinese, suscitando qualche entusiasmo tra gli elettori più giovani e quelli che vivono nelle principali aree urbane della Malaysia.

Alcune proteste di piazza dopo il voto non avevano comunque scosso il regime e il mancato appoggio degli Stati Uniti o di altri governi stranieri aveva riportato la situazione alla normalità. La recente decisione di Najib di procedere con il taglio dei sussidi di cui beneficiano decine di milioni di malesi ha però riacceso gli animi, offrendo una nuova opportunità ad un’opposizione che, tuttavia, appoggia misure di libero mercato ancora più estreme di quelle prospettate in questi giorni dal governo.

Un clima di crisi ha segnato infine il passaggio al nuovo anno anche nella vicina Cambogia, dove l’opposizione dell’ex ministro delle Finanze, Sam Rainsy, sta trovando una boccata d’ossigeno grazie ad una serie di proteste e scioperi da parte dei lavoratori del settore tessile. Questi ultimi chiedono un aumento dello stipendio minimo da fame ben superiore a quello garantito recentemente dal regime del premier Hun Sen, il quale già a fine luglio aveva visto minacciata la sua permanenza al potere da manifestazioni dell’opposizione che chiedevano una ripetizione del voto per presunte irregolarità.

Della mobilitazione di lavoratori tra i più sfruttati del pianeta, e che garantiscono all’industria tessile indigena entrate per oltre 5 miliardi di dollari l’anno, ne sta approfittando anche in questo caso l’opposizione del Partito della Salvezza Nazionale (CNRP) per chiedere una serie di concessioni che non era riuscita ad ottenere dopo il voto.

Il CNRP e il Partito Popolare Cambogiano (CPP) al potere si incontreranno così venerdì per discutere esclusivamente di riforma elettorale e di possibili elezioni anticipate, misure che, nelle speranze dell’opposizione, dovrebbero consentire un ricambio alla guida del paese nel prossimo futuro.

L’intenzione dell’opposizione politica, d’altra parte, è anche in questo caso quella di far confluire la lotta dei lavoratori in una protesta relativamente inoffensiva per un sistema, come quello della Cambogia, che deve continuare a mettere a disposizione manodopera a bassissimo costo per le grandi compagnie internazionali.

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