di Michele Paris

Mentre il presidente afgano, Hamid Karzai, continua ad insistere nel rinviare la firma sul cosiddetto Accordo Bilaterale per la Sicurezza con gli Stati Uniti, l’amministrazione Obama sta cercando di far fronte ad una situazione impensabile fino a poche settimane fa per mandare in porto un trattato che consentirebbe di mantenere un significativo contingente militare nel paese centro-asiatico dopo il 31 dicembre di quest’anno.

Gli ultimi sviluppi nella vicenda dei rapporti tra Kabul e Washington hanno spinto il presidente Obama ad incontrare nella giornata di martedì alla Casa Bianca i responsabili della guerra in Afghanistan, ufficialmente per discutere del numero di soldati che dovranno restare una volta ultimate le operazioni di combattimento. Al vertice erano presenti, tra gli altri, il comandante delle forze di occupazione USA, generale Joseph Dunford, e il capo di stato maggiore, generale Martin Dempsey, nonché il segretario alla Difesa, Chuck Hagel.

Le consultazioni di emergenza a Washington sarebbero avvenute per preparare il prossimo vertice NATO nel quale verranno discusse con i partner degli Stati Uniti le dimensioni del contingente da mantenere in Afghanistan a partire dal gennaio 2014. Alla luce dei crescenti attriti con Karzai, tuttavia, è praticamente certo che Obama abbia affrontato con i propri generali le modalità migliori per esercitare pressioni sul leader afgano in relazione al trattato bilaterale.

Alcuni importanti membri del Congresso informati sull’incontro della Casa Bianca si sono infatti riferiti a quest’ultima questione, lasciando anche intendere la possibilità di un cambiamento della strategia americana. In particolare, il presidente della commissione del Senato per le Forze Armate, il democratico Carl Levin, ha affermato che “l’amministrazione [Obama] semplicemente non dovrebbe contare su Karzai per la firma dell’accordo”. Per il senatore del Michigan sarà piuttosto il prossimo presidente afgano ad essere “più affidabile” circa l’accordo bilaterale.

Dello stesso avviso è stato anche il senatore repubblicano Lindsey Graham, il quale ha suggerito che la scadenza ultima per la firma dell’accordo dovrebbe essere spostata a dopo le elezioni presidenziali del 5 aprile prossimo e la conseguente uscita di scena di Karzai.

La Casa Bianca, tuttavia, ancora martedì sembrava essere ferma sulla propria precedente linea. Il portavoce di Obama, Jay Carney, aveva cioè ribadito che la firma sull’accordo “non può essere attesa per mesi” ma deve essere una questione di settimane. Inizialmente, il governo USA aveva chiesto a Karzai di approvare definitivamente l’accordo entro la fine del 2013, così da consentire ai vertici militari di avere il tempo necessario per pianificare le operazioni.

Questa scadenza sembrava dover essere rispettata senza difficoltà, dopo che nel mese di novembre una speciale assemblea tribale - “loya jirga” - convocata dallo stesso presidente afgano aveva approvato i termini dell’accordo con gli Stati Uniti. A sorpresa, però, Karzai aveva puntato i piedi, sostenendo che la firma sull’accordo non sarebbe arrivata prima delle elezioni per la scelta del suo successore.

Il trattato bilaterale già negoziato prevede la permanenza per almeno un decennio di circa 10 mila soldati americani, i quali avranno accesso a nove basi in territorio afgano. I militari godranno inoltre di totale immunità dalle leggi locali per eventuali crimini commessi nel paese occupato.

Queste e altre condizioni imposte dagli USA, così come la stessa occupazione americana, sono fortemente osteggiate dalla maggioranza della popolazione afgana. Da qui, probabilmente, l’atteggiamento sempre più scontroso del presidente nei confronti dell’amministrazione Obama.

Da alcuni mesi, così, Karzai ha iniziato a chiedere varie concessioni alle forze di occupazione, come lo stop ai raid notturni nelle abitazioni private dei cittadini afgani sospettati di legami con gli “insorti” e il sostegno ad un processo di riconciliazione con i Talebani. Karzai, inoltre, è giunto più volte a criticare aspramente l’occupazione americana, accusando talvolta le forze NATO di essere dietro ad alcuni attentati, in modo da ingigantire la situazione di crisi nel paese e far salire le pressioni per la firma sull’accordo bilaterale.

A gettare nuova benzina sul fuoco è stata poi questa settimana una rivelazione riportata dal New York Times, secondo la quale Karzai avrebbe avviato colloqui segreti con gli stessi Talebani a partire dal mese di novembre. La notizia è stata poi confermata da esponenti del regime di Kabul, tra cui il portavoce del presidente, Aimal Faizi, che ha definito “serie” le discussioni andate in scena a Dubai. Ad aprire la strada del negoziato sarebbero stati i leader Talebani, incoraggiati proprio dall’atteggiamento sempre più ostile di Karzai nei confronti dei padroni americani.

L’iniziativa di pace difficilmente porterà a qualche risultato e, secondo alcuni osservatori, potrebbe essere solo una strategia talebana per dividere ancor più Karzai e gli USA nel tentativo di far naufragare del tutto il trattato bilaterale, spianando la strada agli “studenti del Corano” per una riconquista del potere ai danni di un regime senza protezioni straniere. Lo stesso Karzai, a sua volta, potrebbe utilizzare la minaccia di una pace separata con i Talebani per estrarre maggiori concessioni dagli Stati Uniti.

In ogni caso, gli USA non sembrano gradire particolarmente eventuali negoziati dietro le loro spalle, nonostante le dichiarazioni ufficiali tutt’altro che polemiche di questi giorni, poiché una riconciliazione di Kabul con i Talebani renderebbe insostenibile la motivazione ufficiale per la presenza militare indefinita in Afghanistan, vale a dire la necessità di continuare a combattere la minaccia “terroristica” nel paese.

La vera ragione dell’occupazione afgana e della necessità di prolungare la permanenza in questo paese è da ricercare invece in questioni strategiche legate alle risorse energetiche della regione centro-asiatica e alla crescente competizione con altre potenze come Russia, Cina o Iran.

Al di là degli scontri e delle tensioni di questi ultimi mesi, sono in pochi a credere che l’accordo bilaterale tra USA e Afghanistan possa realmente fallire. La classe politica indigena deve infatti a Washington la propria posizione di potere e le ricchezze accumulate in questi anni, così che un’uscita di scena improvvisa degli Stati Uniti dal primo gennaio prossimo comporterebbe non solo la perdita di miliardi di dollari in aiuti finanziari provenienti dall’Occidente da cui trarre profitto ma favorirebbe con ogni probabilità anche il ritorno al potere dei Talebani in tempi non troppo lunghi.

La fine del mandato di Hamid Karzai, d’altra parte, dovrebbe togliere di mezzo l’ostacolo principale al raggiungimento dell’obiettivo americano in Afghanistan. Tutti i principali candidati alla presidenza - tra cui gli ex ministri degli Esteri, Abdullah Abdullah e Zalmai Rassoul, l’ex ministro delle Finanze, Ashraf Ghani Ahmadzai, e il fratello dell’attuale presidente, Quayum Karzai - appaiono infatti favorevoli alla firma dell’accordo sulla sicurezza senza ulteriori rinvii.

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