di Mario Lombardo

Con un seguito di oltre 100 uomini d’affari e di 7 ministri del suo governo, il presidente iraniano Hassan Rouhani è stato protagonista questa settimana di un’attesa visita in Turchia, dove un leader della Repubblica Islamica non metteva piede da ben 18 anni. I temi all’ordine del giorno sono stati molteplici tra i due vicini spesso attestati su posizioni divergenti in relazione ad alcune delle questioni mediorientali più importanti, con un’attenzione particolare agli scambi commerciali, alle politiche energetiche e alla persistente crisi siriana.

Il presidente “riformista” dell’Iran è sbarcato ad Ankara nella giornata di lunedì ed ha trascorso due giorni in Turchia, dove ha incontrato sia il presidente, Abdullah Gül, sia il primo ministro, Recep Tayyip Erdogan. La visita ha seguito quella di quest’ultimo lo scorso gennaio a Teheran, durante la quale era stato firmato un accordo di commercio preferenziale per la riduzione delle tariffe doganali negli scambi di merci tra i due paesi.

Durante la visita di Rouhani sono stati siglati una decina di nuovi accordi culturali ed economici, in particolare nel settore delle costruzioni e a favore di aziende turche che opereranno in Iran, con l’obiettivo di raddoppiare il volume degli scambi bilaterali, da poco meno di 15 miliardi di dollari nel 2013 a 30 miliardi nel 2015, sempre che - come ha affermato il ministro per lo Sviluppo di Ankara, Cevdet Yilmaz - vengano eliminate le “ingiuste” sanzioni economiche che pesano sulla Repubblica Islamica.

Le relazioni commerciali tra i due paesi, in realtà, erano già vicine a questo traguardo nel 2012, quando la Turchia aveva deciso di aggirare le sanzioni americane contro Teheran pagando le importazioni di gas naturale in oro. Quando però gli Stati Uniti hanno approvato nuove misure punitive per impedire anche gli scambi di metalli preziosi con l’Iran, il volume dei traffici bilaterali si è quasi dimezzato.

I colloqui di questa settimana sono serviti anche per cercare di risolvere una diatriba legata al prezzo del gas naturale destinato alla Turchia, dopo che Ankara nel 2012 aveva presentato un esposto alla Corte Internazionale di Arbitrato, lamentando l’eccessivo costo delle importazioni dall’Iran rispetto alle forniture provenienti dalla Russia o dall’Azerbaijan. La questione è stata discussa da Rouhani ed Erdogan e, pur non avendo ancora trovato una soluzione, i due leader hanno dato istruzione ai rispettivi ministri competenti di proseguire le trattative per giungere ad un esito condiviso.

La Turchia importa attualmente già 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale dall’Iran ma un eventuale superamento della disputa in corso potrebbe anche in questo caso far raddoppiare le forniture. Uno dei punti centrali del programma di governo di Rouhani è d’altra parte l’aumento delle esportazioni delle risorse energetiche iraniane, tuttora limitate dalle sanzioni internazionali.

Per la Turchia, invece, come ha ricordato lunedì l’ex ambasciatore indiano M K Bhadrakumar sulla testata on line Asia Times, la partnership con Teheran in questo settore contribuisce a soddisfare le ambizioni di trasformare il paese in un “hub” delle esportazioni di gas dall’Iran verso l’Europa una volta che le relazioni con l’Occidente saranno normalizzate.

In previsione proprio del propabile reintegro della Repubblica Islamica nei circuiti del capitalismo internazionale, il business turco e il governo Erdogan intendono costruirsi una posizione privilegiata, così da avvantaggiarsi nei confronti di paesi e compagnie concorrenti nel momento in cui dovesse scattare la competizione per un mercato con enormi potenzialità.

Gli interessi economici di entrambi i paesi sembrano dunque prevalere sulle differenti posizioni assunte dai due governi attorno a svariate questioni. In relazione alla Siria, in particolare, Turchia e Iran si ritrovano a sostenere le due parti in causa nel conflitto. Erdogan, pur avendo abbassato i toni negli ultimi mesi alla luce dell’evidente fallimento della propria politica siriana, rimane uno dei più convinti sostenitori dell’opposizione che si batte contro Bashar al-Assad. L’Iran, al contrario, è il principale alleato del regime alauita (sciita).

Le divergenze riguardano anche l’Iraq, il cui primo ministro sciita, Nouri al-Maliki, è sostenuto da Teheran ed ha accusato più volte la Turchia di essersi intromessa negli affari interni del proprio paese. Soprattutto, Baghdad vede con estremo sospetto l’appoggio di Ankara al governo semi-autonomo curdo in Iraq, con il quale Erdogan ha siglato un accordo di fornitura di petrolio contro il volere delle autorità centrali.

Allo stesso tempo, il governo islamista dell’AKP, come l’Iran, desidera però che l’Iraq mantenga l’integrità territoriale, anche perché l’eventuale indipendenza del Kurdistan iracheno potrebbe avere conseguenze destabilizzanti sulla stessa Turchia, vista la considerevole e inquieta minoranza curda che vive entro i propri confini.

A spingere verso un riavvicinamento tra Iran e Turchia è, più in generale, anche il sostanziale naufragio delle ambizioni di leadership in Medio Oriente nutrite dal governo Erdogan, di fatto frantumatesi con il mancato rovesciamento di Assad a Damasco e con la fine dei Fratelli Musulmani in Egitto.

Gli iraniani, inoltre, nonostante le differenze apprezzano il riconoscimento da parte della Turchia del diritto allo sviluppo del proprio controverso programma nucleare a fini pacifici, sottolineato, tra l’altro, sia dalle recenti critiche del governo di Ankara verso le sanzioni americane sia dalla bozza di accordo proposta nel 2010 dal governo turco assieme a quello del Brasile per la risoluzione di uno stallo che prosegue tuttora con la comunità internazionale.

Non caso, forse, la visita di Rouhani in Turchia, che segna - secondo le parole dello stesso presidente iraniano - un “punto di svolta” nelle relazioni tra i due paesi e contribuisce al processo di normalizzazione delle relazioni internazionali della Repubblica Islamica, è coincisa con il nuovo round di negoziati sul nucleare andato in scena a Ginevra, definiti dalla delegazione di Teheran “positivi e costruttivi”, nonostante appaia sempre più probabile che per trovare un accordo definitivo saranno necessari altri sei mesi in aggiunta a quelli che scadono il 20 luglio prossimo.

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