di Mario Lombardo

Prima dell’arrivo a Baghdad nella giornata di lunedì per un delicato colloquio con il premier iracheno Maliki, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha trascorso la domenica incontrando il neo-presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, al quale ha manifestato l’intenzione degli Stati Uniti di ristabilire la piena partnership con il nuovo regime al Cairo dopo le relative incomprensioni seguite al colpo di stato del luglio scorso e alla durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani.

La disposizione più che benevola degli USA si è concretizzata con l’annuncio da parte dell’ex senatore democratico dello sblocco di 650 milioni di dollari destinati ai militari egiziani, che erano stati congelati dall’amministrazione Obama in seguito alla deposizione dell’ex presidente Mohamed Mursi. Questa cifra corrisponde alla prima tranche di un pacchetto da circa 1,3 miliardi di dollari che Washington eroga annualmente alle forze armate dell’Egitto, sostanzialmente in cambio del mantenimento del paese nord-africano nell’orbita strategica degli Stati Uniti.

Sulla questione degli aiuti militari, dunque, Kerry ha assicurato che i due paesi alleati sono “sul binario giusto” e che anche la fornitura di 10 elicotteri Apache, precedentemente sospesa, verrà autorizzata “molto presto”.

La visita di Kerry al Cairo è giunta significativamente il giorno successivo alla conferma in appello della condanna a morte di ben 183 sostenitori dei Fratelli Musulmani, tra cui l’ex guida suprema del movimento islamista, Mohamed Badie. Come molti altri processi andati in scena in Egitto nei mesi scorsi, anche quello di sabato non è stato altro che una farsa, essendo sfociato in una sentenza emessa al termine di un’udienza durata appena 15 minuti e condotto senza il minimo rispetto dei diritti degli imputati.

Simili pratiche sono estremamente diffuse nell’Egitto controllato dalla giunta militare guidata da Sisi, tanto che lo stesso Kerry ha ammesso di essere stato costretto ad esprimere “il nostro sostegno per i diritti e le libertà universali di tutti gli egiziani, incluse le libertà di espressione e di associazione”.

Le parole del numero uno della diplomazia USA sono evidentemente cadute nel vuoto, visto che lunedì un altro tribunale egiziano ha inflitto condanne tra 7 e 10 anni di carcere a tre giornalisti di Al Jazeera, accusati di avere fornito aiuto materiale ad un’organizzazione terroristica, cioè ai Fratelli Musulmani. I reporter condannati sono stati puniti per avere raccontato gli eventi seguiti al golpe in maniera troppo favorevole al governo eletto dei Fratelli Musulmani, sostenuto dalla monarchia del Qatar a cui appartiene il network arabo.

Anche durante questo procedimento, le basilari norme democratiche sono state deliberatamente calpestate, ad esempio con il ricorso a prove del tutto inconsistenti per dimostrare la presunta colpevolezza dei tre giornalisti.

Il governo che l’ex generale Sisi si appresta a guidare, d’altra parte, ha presieduto non solo a innumerevoli processi come quelli appena descritti ma anche al brutale soffocamento di qualsiasi forma di opposizione al nuovo regime. Come già ricordato, a farne le spese sono stati soprattutto i Fratelli Musulmani, tra cui si sono contate migliaia di morti e decine di migliaia di arresti.

Come corollario della repressione, Sisi ha presieduto all’emanazione di leggi che hanno di fatto bandito qualsiasi forma di protesta, mentre ha favorito la stesura di una nuova Costituzione che ha fissato il ruolo privilegiato dei militari nel paese. Per legittimare tutto ciò, il regime ha organizzato con il consenso dell’Occidente le elezioni presidenziali del Maggio scorso, nelle quali Sisi ha ottenuto il 97% dei consensi in una consultazione segnata dall’astensionismo di massa, nonché da brogli e intimidazioni.

Una nuova testimonianza del clima che si respira nell’Egitto di Sisi è giunta poi nel fine settimana con una rivelazione pubblicata dal Guardian, nella quale si racconta della prigione militare segreta di Azouli. Svariate testimonianze, raccolte dal quotidiano britannico, descrivono i raccapriccianti metodi di tortura riservati agli ospiti della struttura, spesso arrestati “a caso” o a seguito di “prove estremamente esili”.

Con queste premesse, in ogni caso, Kerry ha potuto affermare che il presidente Sisi ha dato la “forte impressione” di essere impegnato “nella revisione delle leggi sui diritti umani” e delle norme “del processo giudiziario”. La fiducia del segretario di Stato americano nelle potenzialità del regime, la cui vera natura ha cercato cinicamente di nascondere, è confermata anche dall’estrema cordialità degli incontri di domenica.

Kerry, ad esempio, ha avuto parole di stima per il ministro degli Esteri, Sameh Shoukry, assieme al quale l’ex candidato alla Casa Bianca ha detto di avere lavorato negli anni passati. Shoukry, infatti, è stato ministro durante l’era Mubarak e ambasciatore del suo paese negli Stati Uniti tra il 2008 e il 2012.

Il ritorno al potere dei militari e di uomini già facenti parte del regime di Mubarak, dopo la parentesi dei Fratelli Musulmani seguita alla rivoluzione del 2011, non crea dunque alcun imbarazzo all’amministrazione Obama, quato meno esteriormente, nonostante quasi tre anni e mezzo fa l’allora dittatore venne invitato a dimettersi proprio da Washington nel pieno della rivolta di piazza Tahrir.

In quell’occasione, peraltro, gli USA scaricarono l’alleato Mubarak con riluttanza solo dopo che la sua posizione era diventata insostenibile e il discredito americano - già ampiamente diffuso tra gli egiziani - rischiava di aumentare ulteriormente con conseguenze disastrose.

In seguito alla rivoluzione, gli Stati Uniti avevano finito per accettare, pur senza entusiasmo, il governo di Mursi e dei Fratelli Musulmani, una volta accertato che quest’ultimo non avrebbe minacciato in maniera seria gli interessi americani (e israeliani) nella regione.

L’ondata di proteste popolari contro il governo, tuttavia, avrebbe compromesso irrimediabilmente anche la posizione di Mursi, spingendo gli USA ad avallare il colpo di stato militare guidato dal generale Sisi. Le modeste critiche rivolte talvolta alla giunta militare hanno infine lasciato spazio alla totale accettazione del nuovo presidente, come conferma la visita di Kerry.

Nonostante la sanguinosa repressione, l’abbraccio a Sisi conferma che gli Stati Uniti hanno assistito all’esito più favorevole possibile della crisi in Egitto, dove un nuovo uomo forte legato a Mubarak ha riconquistato il potere, garantendo il controllo delle piazze e il quasi totale allineamento del Cairo agli interessi strategici di Washington.

Gli unici scrupoli mostrari da Kerry sono legati alla necessità di fare apparire la repressione in atto come una parentesi trascurabile anche se sgradevole, così da rassicurare l’opinione pubblica internazionale circa il percorso “democratico” intrapreso dal nuovo Egitto. A questo scopo sono servite le frasi del tutto vuote pronunciate al Cairo dal capo della diplomazia USA, il quale ha assicurato che con Sisi ha discusso del “ruolo essenziale in una democrazia di una società vivace, di una stampa libera, dello stato di diritto e [della garanzia] di un giusto processo”.

Al di là delle dichiarazioni, la visita del segretario di Stato in Egitto nel fine settimane non fa che confermare ancora una volta la reale attitudine “democratica” della classe dirigente d’oltreoceano, pronta come sempre a collaborare con qualsiasi regime dittatoriale che garantisca gli interessi dell’imperialismo americano. Tanto più in una situazione come quella attuale di grave instabilità nella regione mediorientale, segnata dalle crisi in Iraq e in Siria che saranno inevitabilmente al centro dei colloqui di John Kerry nel prosieguo della sua trasferta nel mondo arabo.

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