di Michele Paris

La competizione crescente tra Cina e Stati Uniti in Estremo Oriente ha segnato come previsto anche le fasi iniziali del summit della Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica (APEC) in corso questa settimana alle porte di Pechino. Nonostante i toni relativamente cordiali e alcuni punti di intesa raggiunti, i leader delle prime due potenze economiche del pianeta si sono impegnati in particolare nella promozione di altrettanti trattati di libero scambio da cui risulta escluso il rispettivo rivale.

L’atteggiamento come al solito di sfida degli USA dietro le apparenze rassicuranti era apparso subito evidente nell’intervento tenuto lunedì dal presidente Obama di fronte ai top manager delle principali compagnie delle 21 “economie” che compongono l’APEC. Qui, Obama aveva riaffermato la presunta necessità della leadership globale del suo paese e il suo status di “potenza del Pacfico”, con le ovvie implicazioni riguardo alle ambizioni cinesi.

Nei confronti di Pechino, il presidente democratico ha poi in sostanza chiarito quali siano le condizioni alle quali gli Stati Uniti accetteranno pacificamente la crescita della Cina, cioè se essa manterrà un ruolo subordinato a Washington sullo scacchiere internazionale. Obama ha in primo luogo chiesto un maggiore impegno per l’apertura del mercato cinese al capitale estero e la tutela degli investitori, i quali dovrebbero essere tra l’altro messi nelle condizioni di competere alla pari con le compagnie indigene.

Queste e altre richieste comportano appunto la sottomissione della Cina e della regione del sud-est asiatico alle regole del capitalismo a stelle e strisce. Lo stesso obiettivo, Washington intende perseguirlo anche con un altro strumento promosso a Pechino in questi giorni, vale a dire il trattato di libero scambio denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP).

Con un gesto provocatorio verso le autorità cinesi, Obama ha presieduto sempre lunedì a un vertice presso l’ambasciata americana con i leader degli altri 11 paesi che dovrebbero far parte del TPP. L’incontro ha alla fine prodotto soltanto un comunicato nel quale sono stati sottolineati i progressi fatti nel superare divisioni e resistenze alla firma del trattato, anche se in un’intervista al Wall Street Journal il ministro per il Commercio della Nuova Zelanda, Tim Groser, ha assicurato che la ratifica definitiva del TPP potrebbe giungere già all’inizio del prossimo anno.

La Partnership Trans-Pacifica continua tuttavia a essere estremanente controversa. Alcuni dettagli resi pubblici grazie a WikiLeaks hanno messo in luce negli ultimi mesi come il trattato sia un mezzo per smantellare le regolamentazioni al business previste dai singoli stati e per diminuire drasticamente il peso delle aziende pubbliche, assicurando alle corporations private - soprattutto americane - il dominio incontrastato sull’economia dell’Estremo Oriente e dell’area del Pacifico.

Inoltre, alcuni paesi continuano ad avere parecchie perplessità sul trattato, dal momento che, ad esempio, la sua ratifica significherebbe l’apertura di settori protetti come quello agricolo, la neutralizzazione di iniziative per la difesa dell’ambiente nei singoli stati o l’imposibilità di accedere per i paesi più poveri a medicinali a basso costo.

Come si rendono ben conto a Pechino, il TPP è più in generale una delle armi principali in mano agli Stati Uniti per cercare di mettere in atto un vero e proprio accerchiamento economico della Cina, già in fase avanzata anche dal punto di vista militare.

Premere per l’approvazione del TPP nel contesto dell’APEC da parte statunitense rappresenta dunque una chiara provocazione verso Pechino. Oltre a essere esclusa dal TPP, la Cina potrebbe infatti perdere dall’introduzione del trattato qualcosa come 100 miliardi di dollari ogni anno in mancate esportazioni.

Oltretutto, il presidente cinese Xi Jinping era intenzionato questa settimana a lanciare in maniera formale i negoziati per un trattato alternativo, cioè la cosiddetta Area di Libero Scambio dell’Asia e del Pacifico (FTAAP), ma gli sforzi di Pechino sarebbero stati bloccati proprio dagli Stati Uniti, interessati invece a mettere al centro del vertice APEC il TPP.

L’ostruzionismo americano conferma l’attitudine allo scontro che caratterizza la politica estera dell’amministrazione Obama, poiché l’FTAAP - a differenza del TPP - è un progetto partorito proprio all’interno dell’APEC, anche se viene da tempo promosso direttamente dal governo cinese.

Alla fine, la Cina ha ottenuto martedì soltanto l’approvazione di una “iniziativa di studio” della durata di due anni sull’FTAAP, definito dallo stesso Xi come lo strumento per “aprire le porte chiuse all’interno dell’area Asia-Pacifico” e garantire la crescita economica in un periodo di stagnazione.

Le pressioni americane, in ogni caso, stanno provocando reazioni contrastanti all’interno della leadership cinese, come dimostrano iniziative adottate proprio nei giorni scorsi sia per contrastare l’accerchiamento da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati sia, al contrario, per lanciare qualche segnale distensivo a Washington.

Ascrivibile al primo caso è l’annuncio fatto domenica scorsa dello stanziamento di 40 miliardi di dollari per la creazione di un fondo destinato a realizzare infrastrutture e allo sfruttamento di risorse naturali nei paesi vicini alla Cina, così da favorire i traffici commerciali e l’approvvigionamento energetico di Pechino.

La Cina ha inoltre appena concluso un trattato di libero scambio con la Corea del Sud e un altro simile sembra essere in dirittura d’arrivo con l’Australia. Nei giorni scorsi, infine, Cina e Russia hanno siglato un secondo importante accordo di fornitura di gas naturale dopo quello sottoscritto a maggio da Putin e Xi.

I due accordi potrebbero nel prossimo futuro portare 68 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Siberia alla Cina, la quale diventerebbe così il primo cliente del gas russo davanti alla Germania. Per Pechino, la partnership energetica con Mosca garantisce approvvigionamenti più sicuri dal punto di vista logistico rispetto alle rotte navali presidiate dalle forze USA, mentre per la Russia rappresenta l’accesso a un colossale mercato alternativo a quello europeo, messo a rischio nel medio o lungo periodo dalle crescenti tensioni esplose dopo la crisi in Ucraina.

Tra le misure adottate da Pechino e che assomigliano molto a concessioni verso gli Stati Uniti spicca invece l’intervento di lunedì da parte dalla Banca Centrale cinese per far salire in un colpo solo il valore del renminbi dello 0,37%. L’iniziativa favorisce evidentemente i paesi e le aziende che esportano in Cina e sembra rispondere alle richieste che Washington fa da tempo per consentire il rafforzamento della moneta cinese.

Pechino, poi, ha annunciato che a partire dal 17 novembre sarà possibile scambiare azioni tra la borsa di Shanghai e quella di Hong Kong, così che gli investitori stranieri, liberi di operare su quest’ultima, avranno per la prima volta accesso diretto alla prima. Per un analista della banca UBS sentito lunedì dal New York Times, la decisione può essere considerata “una pietra miliare nell’evoluzione del settore finanziario cinese e nel processo di apertura del mercato dei capitali” di questo paese.

In quello che i media internazionali hanno definito come un esempio della possibile collaborazione tra USA e Cina, i due paesi hanno poi confermato martedì il raggiungimento di un’intesa sull’eliminazione delle tariffe doganali per una serie di prodotti tecnologici, mentre il giorno prima era stata la volta di un accordo sul prolungamento della durata dei visti di ingresso nei due paesi.

Al di là di concessioni o controffensive da parte della Cina, la linea provocatoria tenuta dagli Stati Uniti nel corso del vertice APEC proseguirà quasi certamente anche nei prossimi appuntamenti internazionali, a cominciare dal summit dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) che si terrà tra mercoledì e giovedì in Myanmar, con al centro le dispute territoriali tra Pechino e vari paesi vicini, e da quello del G-20 nel fine settimana a Brisbane, in Australia, dove il presidente Obama dovrebbe pronunciare un importante discorso sulla “leadership USA nell’area Asia-Pacifico”.

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