di Michele Paris

Con la scadenza per trovare un accordo definitivo sul nucleare iraniano sempre più vicina, i paesi impegnati nel negoziato con la Repubblica Islamica sembrano essere ancora lontani dall’appianare tutte le divergenze emerse in oltre un decennio di dispute e in mesi di estenuanti trattative. Dopo una serie di incontri in varie capitali europee, anche il segretario di Stato americano, John Kerry, è giunto giovedì a Vienna per presenziare di persona a quelle che dovrebbero essere le fasi finali dei negoziati prima del termine fissato per lunedì prossimo.

L’ex senatore democratico aveva incontrato a Londra le proprie controparti di Gran Bretagna e Oman per poi raggiungere a Parigi i ministri degli Esteri francese e saudita. Il primo summit è stato cioè con governi relativamente aperti a un accordo equo, con il sultanato dell’Oman che lo scorso anno aveva svolto un ruolo decisivo nel raggiungimento di un’intesa provvisoria tra Washington e Teheran, mentre il secondo con rappresentanti di paesi che hanno al contrario assunto finora una posizione più intransigente.

Nella capitale austriaca le trattative tra le delegazioni dell’Iran e dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sono in corso dall’inizio della settimana nel tentativo di trovare un accordo o, quanto meno, un punto d’incontro che permetta di prorogare nuovamente le discussioni.

Il vertice in corso a Vienna è il culmine dell’accordo di Ginevra siglato tra le parti lo scorso anno ed entrato in vigore il 20 gennaio. L’accordo ad interim era stato poi prolungato per altri quattro mesi una volta preso atto dell’impossibilità di arrivare a un’intesa di ampio respiro entro la scadenza originaria del 20 luglio.

Le questioni più spinose sulle quali sarebbero arenate le trattative riguardano in particolare i tempi dell’eventuale revoca delle sanzioni economiche che gravano sull’Iran e le capacità di arricchimento che Teheran avrebbe facoltà di mantenere nel prossimo futuro per sviluppare un programma nucleare civile.

Secondo i media occidentali, l’atmosfera a Vienna non sarebbe tale da far prevedere un accordo entro il 24 novembre. Allo stesso tempo, nessuna delle parti sembra volere un crollo dei negoziati, così che la soluzione più probabile potrebbe essere un ulteriore prolungamento.

A Washington, l’appena nominato numero due del Dipartimento di Stato, il vice-consigliere del presidente per la sicurezza nazionale Anthony Blinken, ha definito l’intesa con l’Iran “non impossibile”, ma ha attribuito la responsabilità per il raggiungimento di essa interamente a Teheran.

Il successo, ha spiegato Blinken, “dipende totalmente dal fatto che l’Iran sia disposto a fare le mosse che convincano noi e i nostri partner che il suo programma [nucleare] ha fini esclusivamente pacifici. Al momento, tuttavia, non siamo ancora a questo punto”.

Che l’Iran abbia piani per lo sviluppo di un programma nucleare con fini diversi da quelli civili non vi è in realtà alcuna prova e, oltrettutto, la validità dei riscontri portati dai governi occidentali e da Israele per dimostrare l’esecuzione di test militari in passato è stata messa in dubbio da più parti.

La riuscita dei negoziati e il ristabilimento delle normali relazioni tra l’Iran e l’Occidente, così come il ritorno a tutti gli effetti di questo paese nei circuiti del capitalismo internazionale, non dipende se non in minima parte dalle scelte e dalle decisioni del governo di Teheran o, più precisamente, della guida suprema, ayatollah Ali Khamenei.

L’eventuale fine dello scontro sulla questione del nucleare ha a che fare invece molto più con fattori strategici legati all’opportunità - principalmente per gli Stati Uniti e, in seconda battuta, dei loro alleati - di normalizzare i rapporti con Teheran al fine di facilitare il perseguimento degli interessi occidentali in Medio Oriente.

L’esito positivo delle discussioni, secondo gli osservatori, è legato anche alle decisioni dei vertici della Repubblica Islamica, nella misura cioè in cui la delegazione guidata dal ministro degli Esteri, il “moderato” Mohammad Javad Zarif, riuscirà a far digerire ai “falchi” in patria le concessioni imposte dall’Occidente in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni.

E le concessioni richieste è probabile che siano al limite della tollerabilità per Teheran, visto che il presidente della commissione parlamentare per il nucleare, Ebrahim Karkhaneh, in un’intervista rilasciata settimana scorsa all’agenzia di stampa iraniana Tasnim aveva accusato gli Stati Uniti di avere riportato i negoziati “indietro al livello zero”.

Karkhaneh si riferiva a un documento presentato dalla delegazione USA agli iraniani nel corso di un vertice in Oman ai primi di novembre, nel quale venivano elencate richieste impossibili da accettare, a cominciare dal numero e dalla qualità delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio da mantenere in funzione.

Oltre a ciò, gli Stati Uniti avrebbero sollevato altre questioni delicate, come la sospensione a “lungo termine” del controverso reattore di Arak per la produzione di uranio e la possiblità di eseguire ispezioni internazionali virtualmente “illimitate”, anche in installazioni militari.

L’amministrazione Obama, d’altra parte, è a sua volta esposta a forti pressioni per imporre i termini più duri possibili all’Iran, soprattutto dopo la vittoria dei repubblicani nelle recenti elezioni di metà mandato. Al Congresso sono infatti già in preparazione proposte di legge non per smantellare le sanzioni, bensì per insaprirle se Teheran non si piegherà ai diktat di Washington.

Un prolungamento dei negoziati potrebbe comunque soddisfare un po’ tutte le parti in causa, come ha confermato giovedì la Associated Press citando esponenti del governo USA ma anche di quello israeliano. Da un lato, la nuova maggioranza al Congresso guadagnerebbe tempo per impostare una politica più articolata nei confronti dell’Iran, sia pure mantenendo la consueta linea dura, mentre dall’altro si eviterebbero rotture diplomatiche in un frangente delicato, visto soprattutto che Washington e Teheran stanno di fatto collaborando nella guerra in corso allo Stato Islamico (ISIS) in Iraq.

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