di Mario Lombardo

L’arresto e l’espulsione dal Partito Comunista Cinese (PCC) dell’ex membro del Comitato Centrale Permanente, Zhou Yongkang, hanno segnato nel fine settimana la fase più acuta dello scontro in atto all’interno della classe dirigente di Pechino a partire dall’installazione della leadership guidata dal presidente Xi Jinping un paio di anni fa. La definitiva caduta e il prossimo processo (più o meno) pubblico di un uomo che fino al 2012 aveva il controllo di fatto dell’intero apparato della sicurezza in Cina - con competenza sulle forze di polizia, i tribunali e i servizi segreti civili - sono stati accompagnati da vari resoconti e commenti degli organi di stampa ufficiali.

L’agenzia statale Xinhua, ad esempio, ha elencato i reati contestati al 72enne Zhou, accusato di avere “approfittato della sua posizione per trarre profitto per sé, la sua famiglia e altri”, ma anche di avere “abusato del suo potere per aiutare parenti, amanti e amici a realizzare enormi profitti… provocando gravi perdite di ‘asset’ pubblici”. Zhou, infine, avrebbe fatto trapelare informazioni segrete, recando danni al partito e al paese.

A parte forse quest’ultima, le altre accuse rivolte a Zhou potrebbero però essere attribuite a molti, se non tutti, i dirigenti “comunisti” cinesi, arricchitisi a spese di centinaia di milioni di persone negli ultimi decenni segnati dal processo di integrazione del paese nei circuiti del capitalismo internazionale.

La famiglia dello stesso presidente Xi, come hanno messo in evidenza alcune recenti indagini giornalistiche occidentali, in parallelo con la sua ascesa ha avuto la possibilità in questi anni di ampliare i propri interessi negli affari, tanto che oggi vale complessivamente svariate centinaia di milioni di dollari. Questa realtà contribuisce perciò a indicare che la purga inflitta a Zhou, così come a molti altri all’interno del partito in questi due anni, si basa su motivazioni di natura esclusivamente politica.

Le voci circa possibili guai giudiziari per Zhou erano iniziate a circolare pochi mesi dopo la sua uscita di scena ufficiale dal Comitato Centrale del Politburo del PCC, di fatto il più alto organo decisionale della Repubblica Popolare Cinese, al termine del 18esimo congresso del partito nel novembre 2012.

Già sul finire del 2013, poi, secondo la Reuters l’ex dirigente “comunista” era finito agli arresti domiciliari, ma un’indagine formale nei suoi confronti sarebbe stata annunciata solo nel luglio successivo, dopo che la nuova dirigenza cinese aveva fatto terra bruciata attorno a Zhou con il pretesto di una battaglia senza precedenti contro la corruzione diffusa negli organi del partito.

La crociata promossa da Xi Jinping, secondo una stima del Financial Times, avrebbe già portato all’arresto o a misure punitive ai danni di più di 250 mila membri del PCC, tra cui una cinquantina di personalità con cariche ministeriali se non ancora più elevate. Praticamente tutte le vittime risultano essere nemici politici di Xi e della sua corrente, mentre finora risultano intoccabili i cosiddetti “princelings”, ovvero l’élite formata dai figli di membri di spicco del partito nei passati decenni, di cui fa parte lo stesso presidente.

La vastità dell’epurazione lascia dunque intendere la gravità dello scontro in corso nel partito e, di conseguenza, le dimensioni della posta in palio. La campagna anti-corruzione del presidente è infatti strettamente legata al suo progetto di “riforma” del sistema economico cinese, basato in sostanza sull’implementazione di misure di libero mercato per cercare di far fronte agli affanni registrati in questi anni in concomitanza con la crisi del capitalismo globale.

L’apparenza dell’impegno profuso nella lotta all’illegalità serve in primo luogo a dare un segnale al business estero della serietà della nuova leadership nel garantire la sicurezza degli invetsimenti in Cina e il rispetto degli standard internazionali. Inoltre e soprattutto, come già anticipato, processi e condanne per crimini fin troppo facilmente rilevabili come corruzione o abuso di potere servono a Xi per consolidare il potere e fare piazza pulita dei rivali interni al partito.

La colpa principale di Zhou Yongkang sembra essere stata quella di aver voluto installare nel Comitato Permanente un proprio uomo - com’è pratica comune tra i massimi dirigenti cinesi che lasciano formalmente ogni incarico pubblico per raggiunti limidi di età - in modo da mantenere una certa influenza sul processo decisionale.

L’uomo in questione era l’ex segretario del partito di Chongqing, Bo Xilai, espulso dal PCC alla vigilia del 18esimo Congresso, che avrebbe suggellato il passaggio del potere a Xi Jingping, e in seguito incriminato, processato e debitamente condannato. Successivamente, la stessa sorte sarebbe toccata a molti fedelissimi di Zhou, fino appunto alla purga somministrata a quest’ultimo, diventato il dirigente con l’incarico più importante a essere incriminato e, nel prossimo futuro, processato nei 65 anni di storia della Cina “comunista”.

Se Zhou, Bo e la fazione che a loro faceva capo non avevano sostanziali obiezioni alla piena restaurazione capitalistica in Cina, la loro opposizione all’agenda di Xi e della nuova leadership di Pechino riguardava soprattutto le questioni legate allo smantellamento o, quanto meno, al ridimensionamento delle grandi aziende pubbliche che operano in un virtuale regime di monopolio in competizione con le corporation internazionali. Sul fronte della politica estera, poi, questa fazione sosteneva un atteggiamento più intransigente nei confronti della crescente aggresività degli Stati Uniti in Asia orientale per contenere la crescita cinese.

Simili posizioni rappresentavano un chiaro ostacolo ai piani di apertura del mercato cinese al capitale internazionale del presidente Xi e del primo ministro, Li Keqiang, i quali vedono chiaramente la creazione di condizioni favorevoli agli investitori stranieri nel loro paese anche come un modo per cercare di neutralizzare le tensioni con Washington.

Lo stretto legame tra le vicende giudiziare che coinvolgono le “tigri” del Partito Comunista e le “riforme” strutturali perseguite dall’amministrazione Xi è stato confermato dal tempismo degli organi di stampa ufficiali cinesi, i quali nei giorni seguiti all’arresto di Zhou hanno sottolineato la necessità di una nuova politica economica per il paese.

Il Quotidiano del Popolo ha scritto martedì ad esempio che i programmi di “stimolo” all’economia devono essere usati con estrema cautela, mentre la priorità del governo deve essere appunto la “riforma strutturale” del sistema, anche a costo di una crescita più lenta. L’editoriale è apparso lo stesso giorno dell’apertura di un’importante conferenza a Pechino, cui partecipano i massimi dirigenti del partito per discutere le “priorità” economiche e finanziarie del prossimo anno.

I media occidentali, da parte loro, non hanno potuto che ammettere il vero obiettivo della guerra alla corruzione del presidente Xi, con il Wall Street Journal che l’ha definita come “il preludio necessario alla ristrutturazione economica” cinese. I leader di questo paese, d’altra parte, “sono ben consapevoli di come Pechino abbia la necessità di abbandonare il suo vecchio modello di crescita”, basato su ingenti investimenti pubblici e “sempre più dispendioso”, e di “reinventare un nuovo percorso di prosperità basato sui consumi [interni]”.

Al centro della “ristrutturazione” definita necessaria, oltre alle riforme fiscali e alla deregulation finanziaria - settori in cui il Journal sostiene si siano già fatti importanti progressi - dovrà esserci ora il problema delle “aziende di stato gonfiate a dismisura”.

In altre parole, come ha scritto questa settimana Francesco Sisci sulla testata on-line Asia Times, l’obiettivo di Pechino sarebbe quello di evitare che la Cina cada nella “trappola sovietica dell’era Brezhnev, negli anni Settanta, quando potenti industrie [pubbliche] si suddividevano lo Stato, corrompendolo e trasformando il paese in un guscio vuoto” al servizio di pochi oligarchi.

Ben lontano dall’essere una battaglia per la giustizia o una premesessa per il miglioramento delle condizioni di vita della massa dei lavoratori cinesi, la campagna anti-corruzione di Xi Jinping serve insomma a spazzare via ogni resistenza interna all’avanzamento di un’agenda economica che intende gettare le basi del completamento dell’evoluzione del modello capitalistico di Pechino.

Un modello che prevede appunto l’apertura del paese sempre più al business internazionale, nella speranza o nell’illusione di contenere le enormi tensioni sociali generate dall’impetuosa e contraddittoria crescita cinese attraverso un’accelerazione delle misure che hanno contribuito a far esplodere quelle stesse tensioni che attraversano la futura prima economia del pianeta.

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