di Fabrizio Casari

Con cinquantacinque anni di ritardo, un presidente degli Stati Uniti ha accettato d’incontrare un presidente Cubano. Le strette di mano e i colloqui intercorsi tra Barak Obama e Raul Castro sono un fatto storico che, sebbene non cancellino responsabilità e memoria, possono preludere ad un futuro diverso. Obama si è impegnato a togliere il nome di Cuba dalla lista dei paesi che patrocinano il terrorismo e questo è certamente un passo importante; oltre a rimuovere una idiozia assoluta, permette la rimozione di una serie di misure ad esso legate, fondamentali per proseguire il dialogo e per aprire il cammino a nuove aperture, che vedranno il ristabilimento pieno delle relazioni diplomatiche con le rispettive sedi. Relazioni che dovranno essere improntate al pieno rispetto della Convenzione di Vienna e non alla Dottrina Monroe.

Cuba chiedeva l’apertura di un dialogo alla pari e senza inibizioni, da decenni, erano gli USA che rifiutavano, ponendo come precondizione la fine del sistema politico. Adesso, invece, Obama non chiede niente a Cuba che l’isola non abbia già deciso di fare per proprio conto e ascoltare Obama ammettere che non è possibile continuare con l’ingerenza diretta negli affari interni degli altri paesi è ovviamente una novità positiva, per quanto al momento risulti ancora un espediente retorico.

L’apertura di quella che con ogni evidenza appare una fase nuova nella relazione tra i due paesi, è certamente un risultato della determinazione di entrambe le leadership. La stampa internazionale sottolinea il coraggio (indiscutibile nella circostanza) di Obama a rompere con un errore lungo 55 anni ed accettare la sfida con Congresso e Senato a maggioranza repubblicana. Peraltro, molti dei senatori e deputati democratici hanno verso Cuba identica posizione dei falchi repubblicani, il che complica ulteriormente le cose.

Quindi, in assenza di pressioni importanti da parte delle aziende USA, che vedono in Cuba un possibile nuovo mercato, è difficile ipotizzare una legge a breve per l’abolizione del blocco. Sia appunto per quanto produrrebbe nel seno dell’establishment statunitense sia anche sotto il profilo della rottura del vincolo con il terrorismo cubano americano dei fuoriusciti, serbatoio elettorale in due stati chiave per la presidenza. In questo senso, anche se alla fine del suo secondo mandato, Obama ha dimostrato oggettivamente coraggio. Ma è giusto sottolineare come sia Cuba a potersi assumere gran parte del merito di questo cambiamento profondo nella politica statunitense.

Se Obama oggi ammette la necessità di voltare pagina, se riconosce l’inutilità di una linea fallimentare, è perché la resistenza di Cuba ha condotto al fallimento quella linea. Quelle strette di mano, quel colloquio a due, la serie d’incontri tra le rispettive delegazioni per affrontare i distinti temi e problemi che l’apertura di una relazione politica comporta dopo 55 anni di scontro, sono il risultato di una resistenza tenace dell’isola che non ha mai ceduto a ricatti e minacce, al terrorismo che ha dovuto subire per 5 decadi.

Quando Obama afferma che non ha interesse a proseguire politiche fallimentari cominciate quando lui non era ancora nato, altro non certifica che la definitiva presa d’atto di una linea annessionista che non ha vinto perché non poteva vincere, dal momento che Cuba, di fronte allo scorrere degli eventi, non ha mai nemmeno ipotizzato compiere passi indietro sul piano della sua sovranità nazionale.

La scelta di costruire un sistema socialista, ribadita anche ieri nel discorso tenuto da Raul, conferma quanto la richiesta di apertura di un dialogo diretto e di porre fine all’ostilità statunitense verso Cuba, non possa essere intesa come un disarmo ideologico.

La costruzione del socialismo cubano, che pure nel corso di cinquantasei anni ha visto nell’applicazione del suo modello modificazioni, rettifiche ed assestamenti, d’accordo ai cambiamenti intervenuti sul piano internazionale le cui ripercussioni, ovviamente, sono state avvertite sull’isola, hanno portato l'isola alla ricerca (tutt'ora in corso) di un modello funzionale alle peculiarità del Paese, ma non si sono trasformate nella rinuncia alla costruzione di un sistema sociopolitico a carattere socialista.

E’ proprio di queste differenze profonde che parla Raul quando ricorda come il dialogo può e deve affrontare ogni ambito, ma che questo avrà bisogno di molta pazienza e potrà darsi solo con il reciproco rispetto delle diverse identità politiche e culturali. Cuba, che attraversa una fondamentale processo di modernizzazione del suo sistema economico e sociale, continuerà come nei 56 anni precedenti a determinare in piena sovranità presente e futuro del Paese.

Del resto, pur riconoscendo onestà e correttezza al presidente statunitense, pur lodandone il coraggio e le buone intenzioni, Raul ha ricordato come dalla vittoria del 1959 ad oggi, nel contenzioso tra Stati Uniti e Cuba c’è un aggressore e un aggredito. E, che se per Obama il blocco è una scelta decisa quando lui non era ancora nato, lo stesso possono dire il 77% dei cubani, che sono nati con il blocco vigente. Dunque sarà la fine di quel sistema di crimini intrecciati ed anacronismo, di guerra ideologica e business illegale il momento decisivo per chiudere una ferita che è costata a Cuba sviluppo, pace e sacrifici immensi.

Vi è poi un altro aspetto, di valore assoluto, che ha concorso a dare il via al cambio di politica statunitense verso l’isola. Se la posizione ferma di tutta la comunità internazionale che, anno dopo anno, in sede ONU ha isolato e sconfitto con numeri schiaccianti il blocco USA, è in particolare l’unità dei paesi latinoamericani, ulteriormente rafforzata dalle sue istituzioni nate negli ultimi anni come CELAC e UNASUR, che ha rappresentato un potente asset per l'isola socialista.

Istituzioni che hanno messo fine alla esclusiva relazione bilaterale che caratterizzava la debolezza di ciascun paese latino con gli Stati Uniti; con esse si è assunta una dimensione collettiva rilevatasi un autentico muro di protezione per l’indipendenza di ogni paese latinoamericano. Uno scenario di cui Cuba si è certamente giovata, potendo chiudere con i decenni nei quali a fronteggiare l’aggressione imperiale era sola.

Questa stessa unità ha permesso al Venezuela, oggetto di una campagna mediatica e politica con finalità sovversive orchestrata dagli Stati Uniti, di ottenere il sostegno di tutta l’America Latina nella richiesta di abrogazione del Decreto presidenziale USA de 9 Marzo scorso, nel quale Washington definiva Caracas una “minaccia alla sicurezza nazionale USA”.

Sebbene Obama nei giorni scorsi abbia parzialmente rettificato quanto affermato dal portavoce che illustrò il Decreto, sostenendo che “Il Venezuela non minaccia gli USA e gli USA non minacciano il Venezuela”, a scanso di equivoci e per chiedere a Obama, in coerenza con quanto affermato, il ritiro di quel Decreto, tutti i paesi latinoamericani hanno chiesto al presidente USA di cancellare il Decreto e la politica che lo ha espresso.

Proprio la consapevolezza del significato intrinseco delle parole contenute nel Decreto, storicamente premessa formale per l’avvio di attività sovversive ed invasioni da parte degli USA verso paesi terzi, aveva già prodotto una roboante reazione politica in Venezuela e nel resto del subcontinente.

Reazione culminata sul piano formale proprio a Panama, con la consegna a John Kerry di oltre 10 milioni di firme che chiedono agli USA il ritiro di quel Decreto, accompagnato dal pronunciamento diretto di 33 paesi su 35 presenti al Vertice delle Americhe, che hanno isolato così Stati Uniti e Canada.

L’assenza di una dichiarazione finale al Vertice è stato purtroppo un epilogo inevitabile. Sarebbe stato certo un grande risultato impegnare tutto il continente in una dichiarazione d'intenti, ma non c'erano le condizioni oggettive.

Non sono certo possibili, all'oggi, dichiarazioni comuni sul Venezuela o sulla richiesta di cambiare radicalmente metodi e obiettivi nella politica di sicurezza e di guerra al narcotraffico, così come sulla necessità di porre fine alle scorribande delle multinazionali estrattive che distruggono l’ambiente. Sono questi tutti temi sollevati con forza dal blocco democratico latinoamericano ai quali però gli USA e il Canada, con il codazzo del Messico, non sono certo in grado di dare risposte che non siano un'autoaccusa.

Ma come già a Mar del Plata nel 2005, proprio l’impossibilità di ricondurre la comunità latinoamericana alla compatibilità politica con gli interessi statunitensi conferma un ulteriore rafforzamento del blocco democratico latinoamericano, che è ben lungi dalla crisi che alcuni media occidentali dipingono e semmai più risoluto nel costruire il suo futuro a prescindere dal Washington Consensus. Finiti i tempi in cui si pensava in inglese ciò che andava accettato in spagnolo. Il Sud adesso parla chiaro, con molte voci ma in una sola lingua. Tocca al Nord imparare ad ascoltare.


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