di Mario Lombardo

L’arrivo a Washington nella giornata di martedì del primo ministro ultra-conservatore giapponese, Shinzo Abe, ha segnato l’inizio di una fondamentale visita che dovrebbe segnare il potenziamento dei rapporti tra i due paesi alleati, suggellato dal recentissimo annuncio di nuove linee guida per regolare le relazioni militari bilaterali.

I governi di Giappone e Stati Uniti avevano fatto sapere lunedì di avere concordato un aggiornamento - il primo dal 1997 - delle norme relative alla cooperazione in ambito militare. In linea di massima, i nuovi accordi consentiranno a Tokyo di partecipare alle avventure belliche degli USA in ogni parte del pianeta senza che l’esecutivo sia obbligato in ogni occasione a ottenere un permesso specifico dal parlamento nipponico.

Questa iniziativa fa seguito alla nuova “interpretazione” della costituzione decisa dal governo Abe lo scorso anno per dare un’impronta decisamente militarista a un documento fortemente pacifista redatto sotto la supervisione americana dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Secondo la stampa internazionale, i nuovi accordi consentiranno una partnership “globale” tra i due paesi e non più focalizzata soltanto a livello regionale. Le forze armate del Giappone potranno ad esempio intercettare e abbattere missili diretti verso gli Stati Uniti e lanciati da un paese terzo, così come operare a fianco dell’alleato in ambito della sicurezza marittima o informatica, esercitando quello che è stato definito come il diritto alla “auto-difesa collettiva”.

Se le implicazioni di quanto appena descritto appaiono già preoccupanti, vista la crescente rivalità tra USA e Cina, ancora più inquietanti sono i risvolti legati agli impegni che Washington dovrebbe onorare nei confronti del Giappone.

La questione più scottante al centro della politica per la sicurezza giapponese è legata alle contese territoriali con Pechino nel Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi hanno già sfiorato più volte lo scontro negli ultimi anni. Le nuove regole di cooperazione tra Tokyo e Washington inaugurate questa settimana prevedono una maggiore collaborazione in quest’area, con il rischio quindi di far aumentare le tensioni in modo esponenziale, vista la comprensibile irritabilità cinese verso qualsiasi ingerenza esterna in quella che viene vista come una disputa da risolvere esclusivamente in maniera bilaterale.

Le prospettive di un simile scenario sono apparse chiare lunedì in seguito a una dichiarazione del segretario di Stato americano, John Kerry, il quale ha appunto assicurato che l’impegno USA per la difesa del Giappone è “solidissimo” e copre tutti i territori amministrati da Tokyo, inclusi quelli rivendicati dalla Cina.

Le dichiarazioni di Kerry confermano perciò che gli Stati Uniti sono disposti a scatenare una guerra potenzialmente nucleare a fianco del Giappone e contro la Cina per una manciata di isole disabitate. Questi timori non sono stati attenuati nemmeno dalle parole del consigliere del presidente Obama per l’Asia, Evan Medeiros, impegnato a rassicurare che il suo paese intende incoraggiare una soluzione diplomatica con Pechino attorno alle dispute territoriali.

Le tensioni crescenti in Estremo Oriente sono in ogni caso alimentate proprio dal riassetto strategico deciso dall’amministrazione Obama in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese nel continente.

Anzi, lo stesso militarismo sempre più accentuato del governo Abe è stato incoraggiato - sia pure con qualche riserva - proprio da Washington, così da favorire l’allineamento del principale alleato asiatico alle proprie esigenze strategiche e mettere il maggiore spazio possibile tra Tokyo e Pechino nonostante la crescente integrazione economica dei due paesi vicini.

Nella stampa ufficiale, tuttavia, è in atto un tentativo di ribaltare la realtà dei fatti, così che gli eventi che stanno accadendo in Asia orientale vengono in larga misura descritti come la conseguenza dell’aggressività cinese o, tutt’al più, del pericolo per gli alleati americani nella regione rappresentato dalla Corea del Nord.

L’altra faccia della strategia anti-cinese degli USA è caratterizzata da un’iniziativa in ambito economico e commerciale che ambisce a riunire in una vasta area di libero scambio dodici paesi asiatici e del continente americano, da cui è significativamente esclusa la Cina.

Questo strumento è denominato Partnership Trans Pacifica (TPP) e più che un tradizionale accordo di libero scambio è un sistema di economie integrato nel quale i paesi che ne fanno parte dovranno accettare un insieme di regole scritte appositamente per favorire le corporation americane.

L’ostacolo finale all’attuazione del TPP è costituito dalla resistenza manifestata dalle popolazioni interessate - accentuata dalla totale segretezza dei negoziati - e dagli stessi governi che dovrebbero farne parte, visto appunto lo strapotere delle multinazionali USA che si prospetta.

Un’intesa sul TPP tra Stati Uniti e Giappone darebbe comunque un impulso forse decisivo al trattato e su questo si stanno concentrando evidentemente le discussioni in corso a Washington tra Obama e Abe.

Anche se ambienti della Casa Bianca hanno escluso che ci possa essere l’annuncio di un accordo sul TPP durante la permanenza del premier giapponese nella capitale americana, qualche progresso nelle trattative potrebbe aiutare Obama nella disputa in atto con il Congresso.

Qui è infatti in discussione una misura che garantirebbe totale autorità al presidente nel raggiungimento di un accordo di libero scambio, sottoponendolo a un voto finale del Congresso senza possibilità di emendamenti. Sul TPP, Obama si trova sulla stessa lunghezza d’onda dei repubblicani, mentre numerosi democratici sono ostili al trattato, soprattutto perché appoggiati dai sindacati che temono un’ulteriore emorragia di posti di lavoro dagli Stati Uniti.

Ad ogni modo, l’importanza del TPP è ancor prima di natura strategica che economica, come ha confermato Obama in un’intervista apparsa lunedì sul Wall Street Journal. Il presidente democratico ha affermato che “se non saremo noi a scrivere le regole [del commercio internazionale], sarà la Cina a farlo”, tanto più alla luce del recente successo della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB), il nuovo istituto finanziario lanciato da Pechino come alternativa al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, entrambi dominati da Washington.

Intrecciata alle tensioni in Estremo Oriente e all’agenda nazionalista del governo di Tokyo è infine la questione del passato coloniale del Giappone che Abe dovrebbe sollevare nel discorso al Congresso previsto per mercoledì.

Il primo ministro, fin dal suo ritorno al potere, ha favorito più o meno apertamente lo spirito revisionista nel suo paese, cercando di minimizzare i crimini dell’imperialismo nipponico nella prima metà del secolo scorso.

I toni che Abe userà per affrontare questo tema verranno valutati con attenzione dalla classe dirigente americana, visto che nel recente passato il revisionismo del governo di Tokyo ha suscitato le ire degli alleati degli Stati Uniti in Asia soggetti alle brutalità dell’occupazione giapponese, a cominciare dalla Corea del Sud, con il rischio di dividere il fronte anti-cinese faticosamente promosso dall’amministrazione Obama.

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