di Michele Paris

La caduta dell’importante città irachena di Ramadi nelle mani dello Stato Islamico (ISIS) questa settimana è stata la prova del sostanziale fallimento della strategia messa in atto dagli Stati Uniti per combattere i militanti jihadisti attraverso il sostegno all’esercito regolare del governo di Baghdad. Le forze armate irachene - finanziate, armate e addestrate da Washington - hanno infatti patito la più grave sconfitta per mano dell’ISIS a partire dallo scorso mese di giugno, quando l’organizzazione fondamentalista dilagò nel nord del paese mediorientale conquistando praticamente senza sforzi la città di Mosul.

A Ramadi, l’assedio dell’ISIS durava da qualche settimana e la débacle dell’esercito di Baghdad è apparsa ancora più umiliante vista la presenza di unità “di élite” a difesa della città e gli intensi bombardamenti condotti dagli americani che, tuttavia, non hanno evidentemente fatto nulla per modificare gli equilibri sul campo.

I nuovi progressi dell’ISIS in Iraq contrastano con i resoconti ufficiali più recenti che lo volevano sulla difensiva nella provincia a larga maggioranza sunnita di Anbar. Gli eventi dei giorni scorsi a Ramadi sono stati prevedibilmente accompagnati dalle notizie delle consuete atrocità ai danni della popolazione civile commesse dall’ISIS, i cui uomini hanno oltretutto messo le mani su equipaggiamenti militari pesanti abbandonati dalle truppe regolari in fuga.

Con l’ISIS a poco più di cento chilometri da Baghdad, il governo del primo ministro Haider al-Abadi è stato alla fine costretto ad autorizzare l’invio delle milizie sciite a Ramadi per cercare di riprendere il controllo della città popolata da una maggioranza sunnita.

Il ricorso alle forze paramilitari sciite, fortemente legate all’Iran, nella guerra all’ISIS viene visto con estremo sospetto dagli Stati Uniti, da dove anzi era stato spesso richiesto il ritiro dal fronte di queste milizie prima di fornire assistenza militare all’esercito regolare.

Nella campagna dello scorso marzo che portò alla riconquista di Tikrit, ad esempio, Washington aveva insistito sul governo di Baghdad per ordinare il ripiegamento delle milizie sciite in cambio dell’avvio di una campagna di bombardamenti aerei contri le postazioni dell’ISIS.

Queste stesse formazioni appaiono però ora indispensabili alla luce della caduta di Ramadi, dal momento che nei mesi scorsi hanno dimostrato di essere l’unica forza in Iraq in grado di contrastare in maniera efficace l’ISIS.

Le milizie sciite sono raggruppate nelle cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare e rispondono nominalmente al primo ministro Abadi, anche se, in realtà, sono in gran parte appoggiate direttamente da Teheran.

Una sintesi efficace della situazione in cui si è venuto a trovare il governo di Baghdad è stata fatta a Patrick Cockburn del britannico The Independent da un ex ministro iracheno, secondo il quale “le pressioni stanno aumentando per sciogliere le restrizioni imposte dagli USA al governo circa i rapporti con Hashid [le milizie sciite]”, poiché “risulta abbastanza evidente che esse sono le uniche forze in grado di contrastare l’ISIS”.

Il governo americano, da parte sua, ha finora mantenuto la propria posizione ufficiale al riguardo, rifiutando di fornire appoggio aereo e d’intelligence alle formazioni sostenute dall’Iran.

Il convergere delle forze paramilitari sciite irachene a Ramadi solleva non poche preoccupazioni per possibili nuove violenze settarie. Ogni campagna militare in cui queste milizie erano state protagoniste nei mesi scorsi aveva fatto registrare brutalità e ritorsioni nei confronti della popolazione sunnita, considerata spesso come simpatizzante dell’ISIS.

Questa percezione era stata rafforzata dal fatto che, ancor prima dell’offensiva dell’ISIS dello scorso anno, le province sunnite irachene erano state attraversate da un’ondata di ribellione nei confronti del governo centrale a guida sciita, accusato di operare discriminazioni su base settaria.

Ad ogni modo, oltre a riconsegnare all’Iran un ruolo di spicco nella lotta all’ISIS in Iraq, l’appello del governo di Baghdad alle milizie sciite segna anche l’inizio di una probabile crisi per il premier Abadi. Quest’ultimo era stato di fatto imposto dagli Stati Uniti nel settembre dello scorso anno, ufficialmente per ridurre le tensioni settarie nel paese dopo gli anni in cui esse erano state alimentate sotto la leadership di Nouri al-Maliki, ritenuto troppo vicino all’Iran malgrado egli stesso fosse stato inizialmente installato da Washington.

La posizione di Abadi risulta dunque gravemente idebolita dopo gli sviluppi degli ultimi giorni e apre la strada agli attacchi della fazione all’interno del suo partito - Dawa - che denuncia le eccessive concessioni fatte alle minoranze sunnita e curda, nonché il fallimento della strategia anti-ISIS prescritta dagli USA.

La crisi in cui continua a dibattersi l’Iraq è in definitiva la conseguenza delle manovre americane messe in atto fin dall’invasione del 2003, passando per il conflitto nella vicina Siria, dove forze fondamentaliste violente come l’ISIS sono state coltivate appositamente per provocare un cambio di regime.

I nuovi scenari osservati con la perdita della città di Ramadi rischiano quindi di rinvigorire le divisioni settarie in Iraq, tradizionalmente sfruttate dagli Stati Uniti, aggravando nel contempo le frizioni tra Teheran e Washington, da dove, inevitabilmente, il quasi naufragio della strategia anti-ISIS dell’amministrazione Obama ha già suscitato polemiche negli ambienti dei “neo-con”, impegnati a chiedere il ritorno in massa delle truppe americane nel martoriato paese mediorientale.

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