di Michele Paris

Dopo tredici anni di potere ininterrotto e indiscusso, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan potrebbe avere appena imboccato la parabola discendente della sua carriera politica in seguito al considerevole ridimensionamento patito dal suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) nelle elezioni parlamentari andate in scena nel fine settimana.

L’AKP è stato in realtà ancora una volta il partito che ha ottenuto di gran lunga il maggior numero di consensi, ma è passato da quasi il 50% del 2011 a circa il 41% odierno, con una perdita netta di tre milioni di voti. A causa di questa emorragia, il partito di Erdogan e del primo ministro, Ahmet Davutoglu, ha fallito per la prima volta dal 2002 l’obiettivo di conquistare la maggioranza assoluta nel parlamento unicamerale turco, necessaria ad assicurare la creazione di un governo monocolore.

Soprattutto, il relativo rovescio patito dall’AKP è dovuto al superamento in maniera piuttosto agevole dell’anti-democratica soglia di sbarramento del 10% da parte del Partito Democratico Popolare (HDP) curdo, in grado di intercettare una fetta dell’elettorato di orientamento progressista, ostile alla deriva imposta al paese da Erdogan, al di là dell’appartenenza etnica.

Il primo partito curdo a entrare nel parlamento turco avrà un’ottantina di seggi, i quali sarebbero stati invece assegnati agli altri partiti, con l’AKP che ne avrebbe beneficiato maggiormente, se non avesse superato lo sbarramento.

Il risultato dell’HDP è la conseguenza del costante declino del partito del presidente, dovuto a una serie di fattori legati alla politica interna ed estera. Già nelle elezioni locali del marzo 2014, l’AKP aveva fatto segnare una flessione di quasi cinque punti percentuali rispetto alle politiche di tre anni prima, mentre la scorsa estate lo stesso Erdogan aveva evitato a malapena il secondo turno alle presidenziali.

Il malcontento ampiamente presente in Turchia verso il governo dell’AKP, sprattutto tra la popolazione secolare e delle principali città, era apparso evidente anche da una lunga serie di manifestazioni di protesta, iniziate nell’estate del 2013 per contestare un progetto urbanistico in un noto parco pubblico di Istanbul.

Il principale partito di opposizione - il kemalista Partito Popolare Repubblicano (CHP) - aveva però faticato a guadagnare consensi e anche nel voto di domenica ha registrato una leggera flessione, pur confermandosi attorno al 25%. Il quarto e ultimo partito in grado di superare il 10% è stato infine il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), salito a oltre il 16% dal 13% del 2011.

Se il premier Davutoglu nella serata di domenica ha sostenuto che i risultati del voto hanno confermato la forza dell’AKP, l’obiettivo di Erdogan era senza dubbio la conquista di una nuova solidissima maggioranza per imporre una riforma costituzionale che traghettasse la Turchia verso un sistema presidenziale.

Erdogan aveva infatti scommesso sulla sua popolarità lo scorso anno quando, da primo ministro, si era candidato a presidente, nonostante questa carica in Turchia preveda un ruolo largamente cerimoniale.

Per modificare a proprio piacimento la costituzione, l’AKP avrebbe avuto bisogno di ottenere almeno 330 seggi sui 550 totali dell’Assemblea di Ankara. Con una tale maggioranza avrebbe però dovuto sottoporre gli eventuali emendamenti a un referendum popolare, per evitare il quale i seggi su cui contare avrebbero dovuto essere 367. Alla fine, l’AKP non è nemmeno riuscito a toccare quota 276, cioè la soglia necessaria a governare in autonomia.

Il dato più preoccupante per Erdogan è rappresentato dal fatto che tutti i segnali di queste ultime settimane indicano come egli stesso sia stato la causa della consistente perdita di consensi del suo partito. Il presidente aveva d’altra parte accettato la trasformazione della campagna elettorale in una sorta di referendum su di lui e sulle sue mire di riforma costituzionale, partecipando attivamente a comizi pubblici nonostante il suo ruolo teoricamente super partes.

Dopo la diffusione dei risultati del voto, Erdogan è rimasto a lungo in silenzio prima di emettere un comunicato ufficiale, giunto solo nella tarda mattinata di lunedì. Il presidente è apparso cauto, invitando tutti i partiti a “valutare in maniera accurata e realistica” l’esito delle elezioni, dal momento che “nessun partito sarà in grado di formare autonomamente un governo”.

Per governare, l’AKP dovrebbe quindi trovare un accordo con un possibile partner. Il candidato naturale a entrare in una coalizione con Erdogan e Davutoglu è l’MHP ma il suo leader, Devlet Bahçeli, ha già escluso questa ipotesi, suggerendo singolarmente come l’AKP debba prima esplorare altre opzioni, vale a dire la possibilità di un governo con l’HDP o con lo stesso HDP e il CHP.

La situazione politica in Turchia si presenta comunque estremamente fluida e, secondo la legge, ci saranno 45 giorni di tempo per formare un nuovo governo, dopodiché, in assenza di sviluppi positivi, il presidente avrà la facoltà di indire una nuova tornata elettorale.

Media vicini all’AKP e alcuni esponenti di questo partito hanno già ipotizzato elezioni a breve ma simili dichiarazioni potrebbero essere solo un modo per fare pressioni sugli altri partiti, visto che un nuovo appuntamento con gli elettori rischierebbe di accelerare il declino di Erdogan e della sua formazione politica.

Se nel breve periodo Erdogan e l’AKP rimarranno le forze dominanti nel panorama politico turco, sono in molti a credere che le mire del presidente sulla costituzione per attribuire maggiori poteri alla sua carica siano state sconfitte. Ad affermarlo è stato anche il leader dell’HDP, Selahattin Demirtas, secondo il quale “il dibattito sulla presidenza, ovvero sulla dittatura, è finito” e la Turchia “ha evitato per poco il disastro”.

Secondo alcuni commentatori turchi, proprio l’abbandono delle velleità presidenzialiste di Erdogan potrebbe consentire la nascita di un governo di coalizione, verosimilmente con l’MHP, i cui vertici vedono con preoccupazione il già strisiciante ampliamento dei poteri messo in atto dall’ex premier.

Nei prossimi giorni sarà comunque interessante osservare le mosse di Erdogan, il quale deve avere già da qualche tempo preso in considerazione la seria possibilità di un ridimensionamento delle sue ambizioni di potere.

Il clima internazionale non troppo favorevole venutosi a creare attorno al governo del suo partito era infatti evidente. Alla vigilia del voto, ad esempio, il Wall Street Journal aveva dato voce alle inquietudini degli “investitori internazionali”, ansiosi di vedere ad Ankara la formazione di un governo stabile ma spaventati dalla possibilità che l’AKP potesse ottenere una supermaggioranza per cambiare a piacimento la costituzione.

Questa disposizione appare altamente significativa dei timori di un’accelerazione delle politiche impopolari perseguite da Erdogan e dall’AKP nell’ultimo decennio e, in particolare, in questi ultimi anni. La volontà del presidente di trasformare la Turchia in una potenza euro-asiatica e di provare a neutralizzare gli effetti del rallentamento dell’economia e delle contraddizioni della crescita impressa al paese ha infatti prodotto gravi tensioni interne, così come in Medio Oriente e nei rapporti con i tradizionali alleati.

In primo luogo, il ruolo del governo turco nella crisi della vicina Siria ha avuto effetti rovinosi. Ankara continua a sostenere l’opposizione armata al regime di Assad e, anzi, il proprio atteggiamento nei confronti di formazioni armate terroristiche è a dir poco ambiguo. Pur condividendo con gli Stati Uniti l’obiettivo finale del cambio di regime a Damasco, Erdogan viene visto con sospetto a Washington, da dove a partire dallo scorso anno almeno ufficialmente il nemico numero uno risulta essere lo Stato Islamico (ISIS).

La campagna anti-Assad dell’AKP è inoltre osteggiata dalla gran parte della popolazione turca e la permanenza di Assad al potere dopo quattro anni di guerra ha indebolito sensibilmente la posizione di Erdogan.

Sul fronte domestico, poi, i problemi per Erdogan sembrano essere altrettanto spinosi, come confermano i numerosi scioperi che continuano a essere organizzati in varie fabbriche del paese. Le note tendenze autoritarie del presidente e della sua cerchia, poi, si sono aggravate nell’ultimo periodo in concomitanza con l’atmosfera di crisi. Il giro di vite alla libertà di stampa si è concretizzato con la detenzione di decine di giornalisti, proprio mentre il governo e i vertici dello stato erano finiti al centro di una clamorosa indagine per corruzione.

Erdogan e i suoi avevano però attribuito le accuse a una cospirazione orchestrata dagli affiliati al movimento del “Gülenisti”, cioè i seguaci del predicatore in esilio volontario negli USA, Fethullah Gülen, ex alleato del presidente. Il governo aveva così scatenato una campagna per rimuovere i “Gülenisti” dalle forze di polizia, dai tribunali e dagli altri organi dello stato, suscitando ulteriori critiche per la propria attitudine anti-democratica.

In attesa degli sviluppi post-elettorali, a mettere pressioni su Erdogan e un AKP privato della maggioranza assoluta in parlamento è stata intanto la risposta dei mercati, con la borsa di Istanbul che nella giornata di lunedì ha aperto con un -8%, mentre la lira turca ha toccato il livello più basso mai registrato nel cambio con il dollaro prima di far segnare una lieve ripresa.

Se vi erano insomma apprensioni per lo strapotere di Erdogan, allo stesso modo negli ambienti finanziari internazionali stanno emergendo ora i timori per l’impossibilità di creare ad Ankara un esecutivo stabile che sia in grado di mettere in atto le “riforme” ritenute necessarie per far fronte a una situazione economica sempre più precaria.

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